Carmela Maria Spadaro, Università Federico II
Parlare di architettura borbonica nella valle dell’Angitola significa affrontare essenzialmente il tema della viabilità in una tra le zone più impervie dell’intera penisola italiana. Viabilità perché sostanzialmente questo tipo di architettura contemplò la realizzazione di strade e ponti per collegare parti di territorio su cui insistevano, fino agli inizi dell’Ottocento iperboliche mulattiere; il che avvenne con notevoli difficoltà di realizzazione poiché le condizioni orografiche della zona erano e sono tali da scoraggiare qualsiasi iniziativa, specialmente in tempi in cui la tecnica non aveva ancora trovato soluzioni che rendessero conveniente la realizzazione dei manufatti.
Infatti, neanche nel famigerato Decennio francese, cui spesso vengono attribuiti molti più meriti di quanti ne abbia realmente, si ebbe il coraggio di affrontare con serietà il problema della mancanza di strade, fatta eccezione per alcuni tracciati, di non particolare problematicità, nella zona di Vibo Valentia (allora Monteleone).
Già nel 1828 e poi nel 1837, tuttavia, i Borbone avevano cominciato a porsi il problema di come garantire ad un’industria allora in piena espansione, le Regie officine di Mongiana, che lo sviluppo industriale legato a quella fabbrica non restasse vanificato dalla mancanza di strade: la polemica sulla qualità e la convenienza di avvalersi del ferro inglese, che coinvolse la Zino & Henry, fu decisiva nel determinare Ferdinando II a riprendere i vecchi progetti e ad ampliarli, realizzando un’opera ritenuta allora coraggiosa e, persino, temeraria.
Ma Ferdinando II non era sicuramente un uomo che si scoraggiava di fronte alle difficoltà. Fu dato così inizio, intorno al 1845, al tracciato Pizzo-Mongiana, poiché dal porto di Pizzo il materiale prodotto a Mongiana partiva alla volta di Napoli per essere rifinito ed impiegato nella realizzazione dei manufatti che si producevano a Pietrarsa. L’occasione fu propizia altresì per realizzare il completo attraversamento dell’Appennino in u punto in cui la distanza in linea d’aria tra le due coste calabresi è di appena 20 km, giungendo così dall’Angitola a Soverato.
In questa vicenda, proprio il Comune di Monterosso fece sentire la sua voce, poiché il progetto prevedeva l’attraversamento dei Comuni di San Nicola da Crissa e di Vallelonga, lasciando fuori Monterosso. Secondo i cittadini di Monterosso, il tracciato era teso a favorire privati interessi di taluni individui (fu chiamato in causa un certo sig. Pruggi, a cui beneficio il delegato ing. Giuseppe Palmieri avrebbe redatto una perizia non del tutto obiettiva). Il tracciato alternativo che i monterubrani proponevano alla Maestà del Re rappresentava, invece, un’economia di spesa significativa con la realizzazione di una strada che avrebbe evitato, a loro dire, i molti burroni e soprattutto consentito la realizzazione di un unico grande ponte, accompagnato da altri piccoli cd. “occhi di ponte”; ma quel che più conta il manufatto sarebbe stato realizzato su terreno più solido rispetto a quello previsto, più franoso. La polemica si trascinò per anni, anche dopo l’assegnazione dell’appalto, tanto che i toni delle suppliche al sovrano divennero via via più accesi (1847), ma il tracciato non fu cambiato. La strada, progettata e realizzata dall’ing. Giuseppe Palmieri, partiva dalla confluenza del fiume Angitola con la carrozzabile per Pizzo, attraversava salendo di quota San Nicola da Crissa, collegandosi alla dorsale che scende verso Soverato, sul versante jonico, passando per Simbario, Spadola, Brognaturo, Serra San Bruno, Mongiana.
Nel 1850 gran parte dell’opera era già stata realizzata, anche se alcuni tratti non erano completi ed in molti casi il percorso si avvalse di vecchie mulattiere collegate mediante dei ponti che attraversavano i numerosi ruscelli presenti nel territorio. Ciò consentì, tuttavia, di dare impulso notevole ai trasporti, riducendo in maniera significativa (circa il 300%) i tempi di percorrenza e soprattutto consentendo il transito ai veicoli più grandi ed in condizioni di accresciuta sicurezza. La spesa fu di 200 mila ducati , pari a due miliardi e quattrocento milioni di vecchie lire (1 ducato era pari a lire 12.000 x 200.000 ducati).
A completamento della viabilità, un’altra opera importante fu realizzata in quegli anni, ossia un nuovo ponte sul fiume Angitola, più ampio del precedente, che collegava ora la strada per Pizzo e Monteleone, rendendo efficiente i collegamenti tra i paesi della costa tirrenica: ponte a 9 arcate di circa 12 metri su piloni alti da 5 a 10 metri, ancora oggi ben visibile, che presenta un’architettura ben proporzionata e soprattutto condizioni di sicurezza forse non più realizzate in epoche successive.
L’opera fu realizzata in soli 5 anni e nel 1852 vide il passaggio della spedizione reale al seguito di Ferdinando II in occasione della sua visita nelle Calabrie. È un esempio tipico di ciò che si dovrebbe far conoscere a quanti oggi con disprezzo parlano delle nostre strade come di “vecchie mulattiere borboniche”: non si possono certamente definire mulattiere le strade collegate da queste grandiose opere di ingegneria e, comunque, c’è da rallegrarsi che siano state realizzate in età borbonica perché non si registrano, in realtà, negli ultimi 160 anni, ulteriori miglioramenti nella viabilità, a parte l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, oggi chiamata Autostrada del Mediterraneo. Un nome che evoca collegamenti con gli altri Paesi del mare nostrum, ma che invece che si ferma a Villa San Giovanni, non consentendo neanche di unire la Sicilia al “continente”, quali che siano le posizioni di ciascuno, pro o contro la realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina.
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