(Lettera Napoletana) (di Annamaria Nazzaro). Tra il ‘500 ed il ‘600 nel Regno di Napoli – allora parte della Monarchia federativa delle Spagne – scrittori politici di grande livello producevano trattati contro Machiavelli e le teorie assolutistiche contenute nel suo saggio “Il Principe” (1513), opera che delinea il modello del politico moderno, cinico ed interessato esclusivamente al potere.
Uno dei più importanti e dei meno noti è Ottavio Sammarco (? – 1630), barone di Rocca d’Evandro e di Camino. Due opere di Sammarco, il “Discorso politico sulla pace in Italia” (1626) e “La mutazione dei Regni” (1629) sono state appena ripubblicate a cura di Gianandrea de Antonellis (Ottavio Sammarco, “Opere politiche”, Club di Autori Indipendenti, Castellammare di Stabia 2018, pp. 182, € 15,00).
“La mutazione dei Regni” ebbe ben otto edizioni italiane e fu tradotto in Spagna ed in Inghilterra, eppure Benedetto Croce definì l’opera, in un articolo su “La critica” (1913), “un mediocre guazzabuglio di luoghi comuni”.
Francisco Elías de Tejada, invece, dedica un intero capitolo del V volume del suo “Nápoles hispanico” a Sammarco e considera l’opera “il più originale fra i libri politici del pensiero occidentale della terza decade del XVII secolo”.
Sammarco scrive all’epoca della Guerra dei Trent’anni (1618-48), una guerra interna alla Cristianità, che vedeva due Monarchi cristiani e due Paesi cristiani in lotta: la Francia, primogenita della Chiesa, con il Re Cristianissimo, primo Re battezzato, successore di Clodoveo e discendente di San Luigi, contrapposta alla Spagna, nata dalla Reconquista con la cacciata dei Musulmani dal Regno, e retta dal Re Cattolico.
Per l’autore di “La mutazione dei Regni” la politica non può che essere soggetta alla morale. Totale il contrasto con Machiavelli, che scinde la morale della politica, riducendo quest’ultima ad una tecnica di conquista e di gestione del potere.
Secondo Sammarco, “il corso della Monarchia [spagnola] deve essere conforme a quello del pianeti, contrario a quello del mondo, che abbraccia la visione machiavellica”.
Il buono e il giusto, mutuati dalla religione, sono i valori che devono ispirare il Principe. Quest’ultimo non potrà mai considerare l’utile personale come scopo del suo agire.
Il governo dovrà essere affidato ad un solo Sovrano, affiancato da Ministri nobili per “sangue ed animo”, educati, dunque, al potere.
Non si tratta, però di un governo assoluto, ma della Monarchia temperata dai corpi intermedi, dalle autonomie, dalle libertà concrete, dagli usi civici, e l’autore riconosce il ruolo fondamentale dell’Aristocrazia per l’ordine e la stabilità di un Regno.
Il Sovrano dovrà servirsi del “giusto mezzo” e la migliore forma di governo deve essere affidata ad uno solo, coadiuvato dai migliori elementi, secondo un principio di razionalità derivata dalla religione, ed accompagnata dalla moralità. Ovviamente, Sammarco parla della religione cattolica e non del protestantesimo, lo scisma luterano, definito “frattura” da Tejada.
Il contrasto con le tesi di Machiavelli contrassegna l’intera opera di Sammarco. L’autore respinge la nota affermazione del fiorentino secondo cui, per il Principe “è meglio essere temuto che amato”. Al contrario, l’amore dei sudditi è uno dei principali sostegni dello Stato, unitamente alla fedeltà dei Nobili, ed in questo consiste “la vera ricchezza dei Principi”. Quanto alla guerra, essa è soltanto difensiva e mossa dalla legittimità, mentre è ingiustificata la guerra di espansione, proiezione dell’anelito di potere del Principe.
Sammarco contrappone la Tradizione alle innovazioni, ma si tratta di una Tradizione dinamica, fondata su secoli di evoluzione lenta, secondo processi naturali.
Il Sovrano crudele e avaro e libidinoso sarà avversato dal Popolo, ma sarà contestato anche quello innovatore, cioè colui che apporterà riforme improvvise e non frutto di una evoluzione nel solco della Tradizione.
Non a caso, i “portatori di novità” o Novatori, cioè i rivoluzionari, nelle Spagne venivano definiti arbitristi, cioè sostenitori dell’arbitrio del Principe
Analizzando l’episodio della rivolta di Masaniello, avvenuta a Napoli nel 1647, Sammarco sottolinea che il suo grido di battaglia fu “Viva il Re, muoia il malgoverno”. La rivolta, in realtà aveva l’obbiettivo di ristabilire il vecchio ordinamento che vedeva Napoli, capitale di uno dei Regni delle Spagne, godere degli stessi privilegi di Madrid. Soltanto la successiva risorgimentale propaganda anti-spagnola creò il mito di un Masaniello rivoluzionario, affamato dallo straniero spagnolo ed antesignano dell’unità italiana.
Della Monarchia federativa delle Spagne l’autore tesse le lodi, sottolineando che la formula del governo spagnolo, “Dio, Patria, Fueros, Re legittimo”, è la migliore, ed individuando nella Monarchia Ispanica lo specchio della Tradizione.
Nel 1600, la Corona di Spagna comprendeva, infatti, Popoli legati da una Tradizione plurisecolare.
In questo contesto si pone la domanda se Napoli fosse una periferia o piuttosto il baluardo dell’Impero.
Nella sua introduzione Gianandrea de Antonellis ricorda come Filippo II fu prima Re di Napoli (24 luglio 1554) come Filippo I, e poi Re di Spagna (16 gennaio 1556), come Filippo II, e sottolinea che Napoli era Capitale alla pari di Madrid e non satellite di essa.
Leggere Ottavio Sammarco, autore cancellato dalla storiografia crociana, è dunque un’ottima introduzione al “Napolès Hispanico”, di Francisco Elías de Tejada (trad.it. Controcorrente, Napoli 2017) che renderà giustizia postuma ad un periodo in cui Napoli, da sempre Capitale, conobbe grande splendore. (LN125/18)
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