(Lettera Napoletana) Il 10 aprile scorso un comitato costituito dall’ex presidente della giunta regionale della Campania Stefano Caldoro, dal senatore Gaetano Quagliariello (“Noi con l’Italia”) e da esponenti meridionalisti come Gino Giammarino e Nando Dicè, ha presentato a Napoli la proposta di un referendum per l’istituzione di una macroregione meridionale unica, che accorpi le attuali sette regioni del Sud, di una Agenzia per gli investimenti nel Mezzogiorno e di una Zona Economica Speciale per tutto il Sud.
Il giudizio su Caldoro governatore della Campania (2010-2015) è negativo, sia pure tenendo conto del disastro ereditato nel 2010 dopo 10 anni di gestione di Antonio Bassolino (emergenza rifiuti, due miliardi di vecchie lire di disavanzo, Sanità commissariata). Ma le proposte vanno giudicato nel merito. All’ex presidente della Regione Campania bisogna riconoscere, comunque, che quando era ancora in carica già definiva le Regioni “inutili centri di spesa” ed avanzava l’idea di una macroregione del Sud.
A che cosa potrebbe servire la macroregione del Sud? Diciamo subito che, nascendo da una suddivisione puramente burocratica (le Regioni create nel 1970), lascerebbe fuori dai suoi confini province e comprensori che per storia e cultura appartengono al Sud (Gaeta, l’attuale Basso Lazio, parte della provincia di Terra di lavoro), ma anche così un accorpamento amministrativo riavvicinerebbe popolazioni che con l’unificazione dell’Italia sono state non solo colonizzate, ma dialettizzate, cioè scisse e messe artificiosamente in contrasto con un processo tipico dei processi rivoluzionari. Gli interessi comuni, attualmente frammentati dalle burocrazie regionali, potrebbero favorire un processo di riaggregazione ed i meridionali residenti nelle sette attuali regioni, dall’Abruzzo alla Sicilia, tornerebbero a pensarsi come unità, almeno in termini di interessi legittimi e di rappresentanza.
Quanto alle Zone Economiche Speciali (ZES), ne sono previste con il DL 91/2017 (“Decreto Sud”) del Governo uscente almeno cinque, in altrettante Regioni meridionali. Si tratta di benefici fiscali e misure di semplificazione burocratica già applicati all’estero, che possono giovare all’economia del Sud, oppressa da fisco e burocrazia. Una Zona Economica speciale unica potrebbe funzionare ugualmente.
Per l’Agenzia per gli investimenti nel Mezzogiorno, c’è invece il rischio che si possa trattare di una riedizione della famigerata Cassa per il Mezzogiorno, servita principalmente alle imprese del Nord e ad alimentare un ceto politico meridionale subalterno, legato dal cordone ombelicale ai partiti nazionali in un meccanismo di scambio (assicurazione del consenso contro risorse da gestire) che va avanti a partire dall’unificazione.
Ma questo rimanda al problema della qualità della classe politica meridionale, ideologicamente legata ai partiti nazionali e tecnicamente scadente. La macroregione certo non lo risolverebbe. Ma potrebbe almeno contribuire alla ricostruzione dell’identità dell’attuale Sud d’Italia, un territorio che dalla Monarchia Normanna (1130) ai Borbone (1861), che ad essa si ricollegavano, ha costituito una realtà culturale ed amministrativa omogenea.
L’idea alla base della macroregione meridionale ripropone il federalismo, un modello politico da precisare (anche la teoria politica non è univoca sul suo contenuto) che costituisce però un tentativo di correggere il modello centralistico e burocratico imposto dall’unificazione piemontese, che lo aveva derivato dalla Rivoluzione francese e dal giacobinismo.
Resta da vedere se il comitato per il referendum sulla macroregione del Sud, che annuncia la raccolta delle firme (“500 mila entro l’estate” ) (Il Mattino, 10.4.2018), sia attrezzato per un’iniziativa del genere, ed è legittimo avanzare perplessità sul sostegno alla proposta potranno dei politici meridionali, a partire dai presidenti di Regione, ciascuno teso a difendere la propria fetta di (sotto) potere.
Una sola cosa è inaccettabile: demonizzare la proposta di una macroregione del Sud sulla base di schemi ideologici e slogan demenziali (“chi è sporco di Lega …”), figli degli anni ‘70, quelli dell’odio e della divisione tra i meridionali in nome di formule come l’“arco costituzionale” o l’“antifascismo militante”. La stessa paccottiglia ideologica che qualche sedicente meridionalista, che al marxismo-leninismo proprio non rinuncia, tenta di riproporre periodicamente in versione aggiornata. (LN122/18).