(Lettera Napoletana) Solo nel 1861 le vittime civili meridionali dell’unificazione-invasione furono circa mezzo milione. La cifra è stata ricostruita dal prof. Giuseppe Gangemi, già docente di metodologia della ricerca all’Università di Padova, nel suo studio: “Senza tocco di campane. 1860-1870: le vittime civili taciute della Guerra Meridionale” (Magenes, Milano 2023, pp. 396, € 24).

Si tratta di un lavoro prezioso per la conoscenza della verità storica, e quindi per la ricostruzione della memoria storica del Sud, basato su documenti, in buona parte quelli dell’Archivio di Stato di Torino, sfuggiti o molto più spesso volutamente tralasciati dagli storici del “Risorgimento”.
Il dato di mezzo milione di vittime si riferisce al 1861. Se il calcolo si estende al decennio del cosiddetto brigantaggio, cioè la resistenza all’invasione, si arriva al milione di morti complessivo di cui parlano alcuni esponenti della nuova storiografia critica sul “Risorgimento”.
Per oltre 10 anni, a partire dal 1861 – e il libro di Gangemi lo conferma ampiamente – al Sud si combatté una vera e propria guerra, che fu nazionale e religiosa, diversamente da quanto sostengono gli storici filo-risorgimentali che riducono drasticamente il numero delle vittime e parlano addirittura di una guerra “civile”.

Il libro è diviso in 10 capitoli con riepiloghi finali e cifre documentate sui cosiddetti plebisciti, le stragi piemontesi a Pontelandolfo e Casalduni, quelle dimenticate in Sicilia e altrove, e le conseguenze della Legge Pica (1863) e dei “domicili coatti”, cioè la deportazione dei meridionali, i bambini arrestati e uccisi, i “briganti” e le statistiche sugli abitanti del Sud prima e dopo l’unificazione.

I garibaldini? Altro che 1000, secondo la vulgata risorgimentale. Erano oltre 50mila, in gran parte provenienti dall’esercito piemontese. Le prime rivolte spontanee contro il nuovo regime a Bronte, Scurcola (in provincia dell’Aquila) o a San Giovanni Rotondo, avvennero in coincidenza con i cosiddetti plebisciti, pochi giorni dopo l’arrivo di Garibaldi a Napoli. Il libro demolisce anche la tesi gramsciana di un brigantaggio ridotto a rivolta contadina contro gli agrari, guidato e finanziato dai Borbone. Decine i paesi nei quali le popolazioni “giurano la loro fedeltà a Francesco II e vengono innalzate le bandiere borboniche.
Gangemi smonta anche la tesi dell’epidemia come causa del grande numero di morti del 1861, confrontandolo con quello degli anni precedenti e successivi.
L’autore di “Senza tocco di campane” (il titolo allude alle morti nascoste e alle vittime senza sepoltura) definisce “ridicole” le critiche ai censimenti borbonici. Nel Regno delle Due Sicilie, si registrava un significativo primato italiano: quello del primo censimento nominativo (1831 in Sicilia) con la successiva Direzione Generale di Statistica a Palermo e la collaborazione proficua di sindaci e parroci.

L’eccidio di Pontelandolfo
Senza fondamento sono le ipotesi di emigrazione nei paesi vicini degli abitanti di Pontelandolfo, il centro del beneventano dove i bersaglieri piemontesi perpetrarono la strage del 14 agosto 1861. I numeri coincidono: furono non meno di 1300 i morti nell’eccidio o nei periodi successivi. Altri 700 abitanti della zona furono deportati, poi, ai “domicili coatti. Quando sopravvivevano ai lavori in miniera, restavano al servizio di signori del Nord o, nel caso di orfani, erano adottati, oppure si perdevano in “brutti giri”.

I documenti dimenticati negli Archivi
Già nel suo precedente libro dedicato alle vittime tra i soldati borbonici, in particolare a Fenestrelle (“In punta di baionetta. 1860-1870: le vittime militari della Guerra meridionale nascoste nell’Archivio di Stato di Torino”, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021), Gangemi aveva rivelato le tecniche di “nascondimento” di nomi e dati negli archivi. Come sa chi frequenta davvero gli archivi, è più facile “non” trovare piuttosto che trovare dei documenti in un archivio, soprattutto se si tratta di temi politicamente delicati, dal 1860 ad oggi.
Risultano in diversi archivi dei “codici” per mascherare le fucilazioni indicate come “morti di passaggio” e fatte registrare da testimoni analfabeti con una croce. La linea è la stessa che emerge da alcune indicazioni trovate dal prof. Gennaro De Crescenzo. presidente del Movimento Neoborbonico nelle sue ricerche (“Non usate la parola fucilazione”, intimava un ufficiale alle sue truppe).

Ad Angelina Romano, fucilata a 9 anni a Castellammare del Golfo (Trapani) dai soldati dell’esercito italiano, il 3 gennaio 1862, e ai bambini (morti o orfani) di quegli anni, sono dedicate molte pagine del libro, visto che diversi documenti attestano come “normale” il loro arresto o la loro deportazione. Tanti i matti, i poveri di mente o i ragazzini uccisi. Come Antonio Colucci, fucilato davanti ai genitori, presso Nola (Napoli), dalla truppa, dopo che i primi fucilatori avevano volontariamente sbagliato la mira per pietà.

Le deportazioni della Legge Pica
Approfondita l’analisi anche giuridica della Legge Pica per la repressione del “brigantaggio” con le sue vittime meridionali. L’ipotesi, approssimata molto per difetto, è di oltre 60mila deportati in due anni e mezzo.

Sconcertano i trasferimenti di intere famiglie, di donne, uomini e bambini separati tra loro anche per dei semplici sospetti o solo perché parenti di sospetti “briganti”, negando qualsiasi garanzia legale e cancellando di fatto le tanto sbandierate costituzioni albertino-sabaude.
Sconcertano i passaggi nei quali il liberale Silvio Spaventa, qualificato come “eroe” risorgimentale, indica nei suoi telegrammi il “tipo” di meridionale da inviare in Sardegna, donne e parenti anziani da mantenere inclusi….

Dagli archivi di Livorno, Lucera e Potenza emergono altri quadri drammatici, tra altissime percentuali di morti (forse non inferiori ai 10mila) e di ammalati per la durezza dei lavori, a Piombino come all’Elba o all’isola del Giglio, destinata alle donne, con la solita altissima percentuale di omissioni nei documenti.

Sul “brigantaggio”, infine, l’autore del libro rileva le solite gravissime lacune documentarie e stima in un quinto i documenti scomparsi. Si trattava probabilmente proprio di quelli più scabrosi. Si conservavano, allora, quelli sulle battaglie contro i briganti veri (il filone dei “più bei fatti d’arme”) ma non quelli contro i “battezzati” briganti: migliaia di semplici imbelli, o sospetti, o innocenti, coinvolti in quella guerra.

Bisogna considerare un aspetto logico fondamentale: non sempre un evento trova riscontro in un documento, soprattutto se si tratta non di briganti-briganti, ma di popolazioni civili e di quelli che Gangemi definisce “imbelli”, applicando i suoi consueti metodi scientifici inoppugnabili e di certo indigesti per gli avversari.

«Ripartendo dal titolo del libro – afferma il prof. Gennaro De Crescenzo, studioso del “Risorgimento” e delle conseguenze dell’unificazione e presidente del Movimento Neoborbonico – da quella assenza di tocchi di campane per le vittime che in tutti questi anni non hanno avuto neanche la possibilità di un funerale, di una messa o di un ricordo, ci auguriamo che questo libro possa diventare una base massiccia per le nuove ricerche su questi temi, nel rispetto proprio di quelle vittime cancellate dalla Storia». (LN176/24)