La storiografia ideologica afferma che il risorgimento fu innescato dal “grido di dolore” che dal Regno delle Due Sicilie si levava verso il Piemonte, e che invasione armata e conquista coloniale furono il mezzo per portare la “libertà”. 

La stessa storiografia afferma anche che, nei medesimi anni, in America, un identico “grido di dolore” provenisse dalle piantagioni degli Stati del Sud dove gli schiavi neri erano prigionieri. Anche in questo caso, la conquista armata fu il mezzo per portare la “libertà”.

Le cose non andarono così e le analogie tra i due avvenimenti sono notevoli, come dimostra l’articolo di Marco Respinti pubblicato sul numero di aprile 2006 de “Il Timone” (www.iltimone.org) che proponiamo quasi integralmente.


 

 

Definire “guerra civile” la più sanguinosa delle “guerre nordamericane”, combattuta tra il 1861 e il 1865, è fondamentalmente sbagliato, motivo per cui è storiograficamente – e non solo partigianamente – corretto definirla (come spesso fanno gli storici di parte “sudista”) “guerra tra gli Stati”. Molti sono peraltro i falsi miti che circondano l’avvenimento. Il primo è, ovviamente, che essa sia stata in qualche modo causata dalla schiavitù in cui i bianchi tenevano i neri. Eppure lo stesso presidente Abraham Lincoln ammise, in una lettera indirizzata a Horace Greele, direttore di The New York Tribune: «Il mio obiettivo in questa lotta è di salvare l’Unione, non di salvare o distruggere la schiavitù». Del resto, l’80% dei “sudisti” non possedeva affatto schiavi, un dato ormai acclarato dalla storiografia più seria.

Quanto all’emancipazione dei neri, un irriducibile abolizionista della schiavitù quale fu William Lloyd Garrison sostenne a lungo, prima dello scoppio della guerra, che dovevano essere gli Stati del nord a secedere, evitando peraltro lo scontro armato, onde trasformarsi in una sorta di paradiso per i neri fuggiaschi dalle piantagioni del Sud.

La guerra non fu fatta, insomma, per liberare gli schiavi: si fece invece per preservare l’Unione tra gli Stati nordamericani. Ragione per cui è assolutamente errato parlare di Nord contro Sud, quanto è invece veritiero parlare di governo federale contro Stati. Certo, furono esclusivamente gli Stati del Sud a portare alle estreme conseguenze le divergenze con il governo federale, ma essi concepirono la propria battaglia come una difesa dei diritti di sovranità di tutti i singoli Stati dell’Unione, diritti che ritenevano sanciti chiare lettere nella Costituzione federale del 1789 e invece traditi da Washington. Completamente fuorviante è, insomma, parlare, in quel modo divenuto anche ideologico, di “nordisti” contro “sudisti”: al di là della suggestione un po’ cinematografica (ma tutta dovuta a certe strane traduzioni italiane), quei termini sono infatti inesistenti in lingua inglese dove esistono solo northern e southern,ossia “settentrionale” e “meridionale”.

Ritenendo di non poter sopportare oltre lo stravolgimento del patto fondativo dell’Unione da parte del governo federale, diversi Stati del Sud decisero nel 1861 di mettere in atto quello che ritenevano un proprio diritto costituzionale: l’abbandono dell’accordo federativo, ossia la secessione. Pacifica. A quel punto, fu il governo federale a spostare la questione sul piano militare inviando truppe “unioniste”.

Gli Stati secessionisti diedero allora vita a una nuova lega, gli Stati Confederati d’America (CSA), che mirava a costituire una nuova nazione nordamericana, indipendente, confederale e non federale. Ovvero in continuità diretta con e decisamente fedele al patto fondativo originario, che nella forma assunta a metà Ottocento gli Stati secessionisti ritenevano oramai irrimediabilmente danneggiato per colpa di Washington. Un ritorno alle origini, insomma. Una risposta alla rivoluzione politica operata dal governo federale immemore di sé.

Dopo l’indipendenza, proclamata il 4 luglio 1776 a Filadelfia, le ex Colonie britanniche dell’America Settentrionale non diedero vita agli Stati Uniti d’America, ma a una Confederazione di Stati indipendenti uniti solo debolmente quanto a difesa e a commercio, e più teoricamente che concretamente. II documento ufficiale di riferimento di questa organizzazione fra Stati furono gli Articoli della Confederazione, approvati il 15 novembre 1777 dal Congresso dei delegati degli Stati (in piena guerra d’indipendenza) ed entrati in vigore ufficialmente il 1° marzo 1781 dopo la ratifica di tutti gli Stati. Con la convocazione della Convenzione costituzionale a Filadelfia il 14 marzo 1787 s’intese poi riformare gli Articoli della Confederazione per ovviare ad alcune loro palesi debolezze. Ma ne risultò invece un documento completamente nuovo, quindi un’organizzazione istituzionale inedita: l’Unione degli Stati nordamericani e non più la Confederazione.Negli Stati Uniti d’America “federale” è infatti il termine impiegato per indicare ciò che da noi si direbbe “nazionale” (talvolta “nazionalistico”), “centrale” (talvolta “centralistico”) e “statale” (talvolta “statalistico”). L’organizzazione “confederale”, invece, è un’unione fra Stati che conservano poteri sovrani e indipendenti.

Gli Stati Uniti d’America nacquero quindi nel 1789, quando George Washington fu eletto primo presidente vigente la Costituzione. II potere delegato alla struttura federale, ovvero al centro, al governo di Washington, è maggiore, laddove nella struttura confederale le ex Colonie, poi Stati indipendenti confederati, erano autonomi e sovrani.

La Costituzione federale, del resto, sorse da un compromesso fra federalisti (centralisti-nazionalisti) e antifederalisti (confederalisti). II 25 settembre 1789, il primo Congresso degli USA propose agli Stati dodici emendamenti. Ne furono approvati dieci, che, ratificati dai vari Stati, entrarono in vigore nel 1791. Da allora sono parte integrante della Costituzione federale con il nome di “Bill of Rights”, a imitazione della “Carta dei diritti” della tradizione giuridica britannica modellata dal Common Law consuetudinario.

Quello statunitense costituisce l’insieme dei dieci emendamenti alla Costituzione che bilanciano a favore dei singoli Stati il potere attribuito appunto dalla Costituzione al governo federale centrale.

Costituzione e “Bill of Rights” sono dunque un via media fra l’antica Confederazione e il centralismo moderno, quest’ultimo nato proprio dalla Guerra cosiddetta civile. Dal 1789 al 1865 (la data della fine della Guerra è un simbolo significativo) sono esistiti degli USA diversi sia dall’antica Confederazione, sia dalla nazione postlincolniana di oggi. Un “antico regime”, diverso sia dal “feudalesimo”, sia dall’epoca postrivoluzionaria.

Lo ha scritto efficacemente lo storico Raimondo Luraghi in Cinque lezioni sulla guerra civile americana, 1861-1865 (La città del sole, Napoli 1997). «Il conflitto civile che dal 1861 al 1865 sconvolse gli Stati Uniti d’America segna una data cruciale nella storia di quel paese: sarebbe difficile sopravvalutare importanza dell’impatto.La metafora storica non è azzardata. L’epoca della Confederazione, infatti, ereditando direttamente il passato coloniale di sostanziale autogoverno, visse del “retaggio medioevale” britannico. Mentre l’epoca successiva alla Guerra cosiddetta civile rappresenta il periodo postrivoluzionario dell’America Settentrionale, e questo grazie a quella “Ricostruzione” (1865-1877) che fu una vera e propria spoliazione culturale ed economica, e che giuridicamente stravolse l’equilibrio fra Stati e governo centrale. A mero vantaggio del secondo.

Anzitutto, con la fine di tale guerra si può ragionevolmente fissare, per l’Unione americana, la cesura tra età moderna e contemporanea. La rivoluzione e l’indipendenza, malgrado la loro grandissima importanza, non ne mutarono infatti radicalmente il tessuto sociale, economico e culturale; e, quanto alla rivoluzione francese, essa ebbe sulla storia del Nord-America una scarsissima incidenza […]. Ma la guerra civile fu ben altro. Essa di fatto seppellì la “vecchia America”; ne alterò le strutture, non meno per i vincitori che per i vinti. Una serie di Stati (che formavano, come superficie, una buona metà dell’Unione) furono costretti, “con il ferro e il sangue”, a uscire dall’epoca agraria e a entrare in quella della grande industria. La rivoluzione industriale (essa stessa tra i motivi scatenanti della guerra) trionfò nel paese intero e l’Unione, che prima, di fatto, era un agglomerato di più o meno disjecta membra, fu unificata non diversamente da quanto lo furono, nella stessa temperie, l’Italia o, meglio ancora, la Germania. E con gli stessi metodi».

[…] La “democrazia moderna” di marca illuministico-giacobina, centralistica e protototalitaria, si fece strada nel corso della prima metà dell’Ottocento nordamericano, impadronendosi di quelle forze federaliste a cui gli antifederalisti avevano a suo tempo strappato il “Bill of Rights”. Le prime coincidevano grosso modo con il Nord, i secondi con il Sud, anche se con clamorose eccezioni da entrambe le parti. Cucinato in salsa puritana oramai secolarizzata, l’illuminismo giacobino nordamericano lavorò l’Ottocento come quello francese aveva lavorato il Settecento ed ebbe il suo “1789” nel 1861.

Accadde negli USA, ma fu lo stesso – le date coincidono – in Italia con il Risorgimento. Come ha osservato Lord Acton, «è semplicemente la democrazia spuria della Rivoluzione francese che ha distrutto l’Unione, disintegrando i resti delle tradizioni e delle istituzioni britanniche». Successe con la Guerra cosiddetta civile.