Breve richiamo di tesi per inquadrare un periodo storico che vide contrapposti in tutta la Penisola l’utopia rivoluzionaria e l’eroismo delle Insorgenze popolari.
Che il 1700 sia stato il secolo dei lumi è cosa nota a chiunque sia passato tra i banchi di scuola e che i lumi in questione fossero quelli accesi dagli Illuministi è altrettanto pacifico nella memoria di tutti noi. Per il resto, il diciottesimo secolo è quello della Rivoluzione Francese, uno degli episodi più indelebilmente fissati tra le nostre reminiscenze scolastiche. Ovviamente, ciò che ricordiamo è la stereotipata iconografia che ci è stata trasmessa, con la regina Maria Antonietta che parla di brioches, i derelitti rinchiusi alla Bastiglia, la giustizia di Madame la Guillotine.
Ciò che non si ricorda, o meglio non si conosce, è la reale portata e le conseguenze che scaturirono dal pensiero illuministico. Banalmente e falsamente indicato come l’atteso riscatto della Ragione dalla schiavitù dell’ignoranza e della superstizione, l’Illuminismo è ricordato come l’insieme di teorie che scaturirono dal desiderio di uomini emancipati di costruire una società giusta che, attraverso le scienze, aprisse finalmente la porta del Progresso a coloro che languivano negli stretti vincoli sociali, rendendoli liberi, uguali, fratelli.
In realtà, i filosofi del settecento, che si formarono e prosperarono all’ombra delle logge massoniche, non fecero altro che sostituire con idee tanto altisonanti quanto vuote, e tutte scritte categoricamente con la maiuscola, quella fitta ed estesa rete di libertà concrete, di istituzioni naturali, di legami economici, sociali e spirituali che avevano costituito fino ad allora le fondamenta della vita dei popoli in tutte le nazioni europee.
Il vero risultato delle teorie illuministiche, e probabilmente l’unico scopo per il quale erano state elaborate, fu di rendere l’uomo un essere isolato e debole, libero sì ma dalla protezione, dal sostegno e dai diritti e privilegi di cui godeva come membro di una famiglia, di una parrocchia, di un municipio, di una corporazione, di una patria.
Soli e prigionieri della propria libertà, con il rapido decadimento della civiltà stratificata in millenni di cultura e cultura, senza più il baluardo dell’etica cristiana, con il buon selvaggio come modello ideale, gli uomini si sarebbero presto mostrati incapaci di vivere pacificamente associati se gli Illuministi – bontà loro – non avessero inventato la Volontà generale.
Sorta di voce della coscienza sociale che avrebbe dovuto parlare spontaneamente ad ogni individuo, la Volontà generale aveva bisogno di interpreti che dovevano indicarla, spiegarla, divulgarla e, all’occorrenza, imporla ai sordi refrattari che non erano capaci di intenderla da soli. Chi se non gli Illuministi poteva meglio assolvere al gravoso compito? Ecco fatti, dunque, l’uomo nuovo e la società nuova, imperniata sul liberismo economico e morale, sull’uguaglianza fasulla del voto individuale, sulla fratellanza espressa dalle baionette e dalla ghigliottina.
Nel 1789, in Francia, i princípi illuministici trovarono la più radicale applicazione con la Rivoluzione, che decapitò l’autorità civile, mutilò quella religiosa, costrinse i contrari con stragi e deportazioni, devastò la nazione per oltre un decennio, seminò il Terrore ovunque e finì per distruggere i propri figli ed essere sostituita da una copia artefatta e dittatoriale del potere che aveva scalzato.
Per nulla appagata da tanto sangue, la Rivoluzione pretese di essere esportata a tutti i popoli vicini. Iniziò così per l’Europa, tra il 1796 e il 1799, la stagione delle invasioni militari da parte dell’esercito francese, alle quali risposero le eroiche rivolte popolari in difesa dei propri paesi, note come Insorgenze.
Infatti, mentre le idee illuministiche avevano fatto breccia nelle classi più colte e nelle corti attraverso le Logge e le Università, i popoli non ne avevano subito il contagio ed erano rimasti saldamente legati alle tradizioni e alla fede che nei secoli erano stati punto di riferimento costante.
Nella penisola italiana le Insorgenze popolari contro l’esercito francese furono numerose e sparse ovunque: in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto, in Toscana, nelle Marche. La maggiore delle insorgenze antigiacobine, e l’unica vittoriosa, ebbe luogo nel Regno delle Due Sicilie, nel 1799, e culminò con la spedizione guidata dal Cardinale Fabrizio Ruffo.
Fu una vera epopea eroica, iniziata dai lazzari napoletani, il popolo minuto, che contrastarono strada per strada e a mani nude l’ingresso delle truppe francesi nella capitale, colpiti alle spalle dai bombardamenti dei vili repubblicani napoletani rinchiusi a Castel Sant’Elmo, pagando l’altissimo prezzo di ottomila vittime in tre giorni. «Uomini meravigliosi, eroi, comandati da capi intrepidi» furono le parole del generale francese Championnet, che li ebbe per avversari. Intanto, mentre il popolo combatteva, i giacobini napoletani – patrioti saranno chiamati in seguito – proclamarono la Repubblica, decisi a imporre la virtù delle nuove idee con l’aiuto delle armi francesi.
Ma l’insorgenza non terminò: dalla Sicilia Ferdinando IV nominò Vicario Generale il cardinale Fabrizio Ruffo, assegnandogli il compito di riconquistare il Regno. Da Punta del Pezzo, in Calabria, Ruffo partì con uno sparuto gruppo di compagni, armati soltanto di una bandiera bianca con lo stemma reale da una parte e la croce dall’altra.
Giusto il tempo di spargere la notizia e ben 1500 volontari, armati alla meglio, giunsero dalle campagne calabresi a costituire l’Armata Cristiana e Reale; ad essi altri si affiancarono strada facendo, oltre le truppe dei Reggimenti regolari. In breve, si costituì un vero esercito popolare, che per divisa aveva una croce bianca cucita sul berretto, e che in soli quattro mesi risalì il Regno liberando paesi e città, provvedendo alle ricostruzione e combattendo eroicamente.
Intanto, le truppe francesi saccheggiavano chiese e palazzi facendo scempio delle ricchezze ed esigendo gravose tasse. I giacobini napoletani, invece, si azzuffavano tra loro per le cariche e per le casse dello Stato e sfornavano vaneggianti leggi che però dovevano essere sempre controfirmate da Championnet per entrare in vigore.
Il 13 giugno, sotto la protezione di Sant’Antonio, il Cardinale Ruffo e della sua Armata della Santa Fede giunsero a Napoli, sconfissero le truppe nemiche al Ponte della Maddalena, e chiusero il tristissimo tentativo di instaurare l’utopia illuminista nel Regno delle Due Sicilie.
Quel che è seguito – la condanna a morte dei traditori della Patria, l’ingerenza degli inglesi negli affari nazionali – ha dato adito a infinite mistificazioni, non spente sul nascere anche a causa della decisione di Ferdinando IV Borbone, divenuto I delle Due Sicilie, di impedire la pubblicazione di opere che ricordassero gli eventi per far calare il silenzio su quella che era stata anche una guerra civile tra napoletani, realisti e giacobini.
La stampa rivoluzionaria europea, al contrario, non mancò di divulgare la propria interpretazione degli avvenimenti, indicando come martiri i traditori e come traditori i patrioti, imponendo la vulgata per la quale nel 1799 sarebbe stata “decapitata la classe dirigente meridionale” creando un vuoto mai più colmato fino ai giorni nostri.
Interpretazione ovviamente ideologica e falsa, inficiata dagli stessi numeri: su circa 8.000 prigionieri, soltanto 124 furono giustiziati, 6 graziati, 222 condannati all’ergastolo, 322 a pene minori, 288 alla deportazione e 67 all’esilio.
Per la maggior parte di essi le pene ebbero durata assai breve – furono tutti liberati entro il 1801 – e, con una clemenza tipicamente borbonica, molti dei condannati furono presto reintegrati nei ruoli dell’Esercito, della Marina e dell’Amministrazione statale. Purtroppo, la clemenza del Re fu ricambiata con nuovi tradimenti, al ritorno dei francesi napoleonici nel 1806.
Dopo oltre due secoli dalla controrivoluzione sanfedista, l’interpretazione storica delle cause e dei fatti continua a dare una rappresentazione stereotipata e faziosa dei fatti e dei protagonisti.
Sarebbe ora, come ha affermato lo storico Renzo U. Montini, di «restituire al sanfedismo originale ed autentico l’innegabile merito di aver rappresentato la spontanea resistenza di popolazioni autenticamente cattoliche e devote alle autorità legittime contro gli abusi, le violenze e l’opera scristianizzatrice di un governo instaurato e sostenuto dallo straniero, in dispregio di tutte le tradizioni politiche e religiose locali».