di Gennaro De Crescenzo

 

La relazione tenuta dal prof. Gennaro De Crescenzo, presidente del Movimento Neoborbonico, al convegno Gli Eroi del Volturno, svoltosi a Capua il 4 ottobre 2008.

«Meglio tornare alla nostra storia, allora. E rifare il percorso all’indietro, cercare di capire le vere cause di una situazione come questa, aspettando di ritornare a camminare con le nostre gambe senza l’aiuto, vero o finto e non richiesto, di nessuno. Da oltre 15 anni siamo impegnati a rintracciare questo filo rosso, consistente e lungo, un vero e proprio “cordone” materno, potremmo dire, dell’identità napoletana e spesso l’abbiamo ritrovato tra le scelte fatte da Carlo o Ferdinando di Borbone, tra le imprese compiute dai napoletani del 1799, i calabresi del 1806 o i lucani del 1860. E quel filo rosso c’era, era chiaro e netto e, continuando il nostro viaggio nel tempo, era lo stesso che teneva uniti i popoli dal Tronto a Trapani, da quel 1860 ai primi insediamenti greci, passando per Normanni e Svevi, Angioini e Spagnoli.

Nessuno di questi popoli, però, da quando il Sud era diventato regno, quasi mille anni fa, si era mai permesso di toccare, di offendere o di cancellare la nostra identità, la nostra lingua: addirittura fin da quando, da città greca, dal 90 a.C., da alleati diventammo un vero e proprio Municipio romano anche se ottenemmo, con un “patto napoletano” (Foedus Neapolitanum) la possibilità di continuare ad usare la lingua greca e di seguire le nostre tradizioni, privilegio davvero raro a quei tempi e che dimostra della forza di un’identità notevole già a quei tempi: non è una leggenda, del resto, che lo stesso imperatore Nerone amasse fare le prove dei suoi spettacoli nel teatro di Neapolis (dalle parti dell’Anticaglia), fidandosi solo del gusto e della sensibilità artistica e musicale dei seguaci di Partenope.
E meno che mai un normanno o un angioino, con una sostanziale e intelligente continuità, osarono attaccare quella stessa identità quando coincideva con i valori cristiani così profondamente radicati tra i napoletani: di qui l’assenza di reazioni di fronte ai “nuovi re” del momento. Di qui la reazione violenta di fronte a quegli invasori che, per la prima volta con i franco-giacobini nel 1799 e in seguito con garibaldini e piemontesi, colpivano la nostra gente nei suoi simboli religiosi e negli affetti più sacri.

Si creò negli anni dell’unificazione, del resto, un distacco netto tra fase pre e post-unitaria nell’ambito della produzione storiografica sul Mezzogiorno. Fu cancellata, mistificata o ridimensionata nell’ambito regionalistico-localistico e spesso folcloristico la grande e gloriosa cultura delle nostre città, alla pari di tante altre storie di piccole città italiane e con esse tutta un’identità. E lo stesso fenomeno si verificò nell’ambito della letteratura e del suo immenso patrimonio musicale, linguistico e di quello artistico.

E quel filo rosso è stato colpevolmente spezzato o cancellato, ad esempio, dai nostri libri di scuola, nei quali, oltre a non trovare riferimenti alla storia dell’epoca borbonica o alle verità sul 1799 o sul 1860, non troverete riferimenti alla Magna Grecia o alla grandezza di Federico II o alla sapienza degli architetti angioini e aragonesi o all’amore che molti viceré spagnoli ebbero per Napoli (da Pedro de Toledo, con la sua rivoluzione urbanistica, al Marchese del Carpio che volle farsi seppellire sull’uscio della chiesa del Carmine, per umiltà con il volto rivolto verso i piedi di quei napoletani che aveva tanto amato e rispettato nella sua vita) o all’immenso patrimonio musicale famoso più nel resto del mondo che tra di noi. Troverete, in quei libri la storia dettagliata del Duomo di Mantova o di Lucca e non quella del Duomo di Napoli; troverete la storia delle province più sperdute della Francia ma non quella dei quartieri della città dove vivono i nostri ragazzi.

Il filo rosso dell’identità napoletana avremmo potuto e dovuto ritrovarlo tra i mille esempi della storia di una lingua che, da quando nacque, ha avuto dignità letteraria di lingua e mai di dialetto. Dai primi, scherzosi e sconosciuti, esempi delle lettere caricaturali di Boccaccio a Napoli, alle opere del Sannazaro, a quelle seicentesche del Basile, autore del Cunto de li cunti, una delle opere più tradotte e imitate del mondo. Lo scrittore giuglianese pensava al Palazzo Reale di Napoli mentre scriveva di quella scarpetta di Cenerentola, diventata famosa per le traduzioni più recenti. Ma la cultura nazionale, lo sappiamo, ha dato più spazio alle Mirandoline venete che alle Zezolle napoletane…

E identità e radici potevano essere, potranno essere, le musiche composte dai Paisiello o gli Scarlatti o i quadri di un Giordano o di un Vaccaro o di un Salvator Rosa. (…)

Fin dalle origini greco-romane, la musica è stata parte importante della nostra identità, elemento caratterizzante anche per il resto del mondo: dalle leggende mitologiche di una sirena, Partenope, che proprio con il suo canto tentò finanche Ulisse, ai racconti dei concerti di Nerone nei nostri prestigiosi teatri aperti e chiusi, puntualmente applauditi e con strumenti rumorosissimi.

Tralasciando gli scarsi documenti relativi ai secoli precedenti (divieti di musiche notturne per strada all’epoca di Federico II o testimonianze relative ai famosi canti duecenteschi delle lavandare), nella storia ufficiale della musica napoletana si verifica spesso quello che in altre culture e in altri settori è raro: la fusione o la contaminazione tra generi e destinatari prima aristocratici e poi popolari. È il caso, ad esempio, di quelle villanelle che diedero origine alla canzone classica napoletana. Poeti e i musici della corte aragonese diedero vita, con i loro strambotti, al primo canto popolaresco napoletano.

Il ‘500 riceve in eredità il successo strepitoso delle villanelle napoletane e, ogni giorno, Piazza Castello diventa il centro musicale di questa città, come la taverna del Cerriglio e lo scoglio di S. Leonardo al borgo di Chiaia dove poeti e musicisti si riunivano per comporre nuove villanelle che il popolo faceva sue e cantava per le strade e nelle feste popolari. È il secolo del primo grande poeta in lingua napoletana, Passaro Bernaldino detto Velardiniello (1400 – 1500), a cui va attribuita la dolce villanella: Voccuccia de no pierzeco aperturo/ Mussillo d’una fica lattaruola/ S’io t’aggio sola dinto quist’uorto ‘nce resto muorto …».

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