Articolo pubblicato dalla rivista di attualità e cultura Appunti, nel numero di maggio 1994, a firma di Marina Carrese.
La storia della Vandea non aveva riscosso tanto interesse neppure durante le celebrazioni per il bicentenario della Rivoluzione Francese, nel 1989.
Invece, è bastato un ciondolo a forma cuore vandeano comparso al collo di un esponente politico per dare il via ad una ridda di polemiche giornalistiche, per scatenare fosche profezie fantapolitiche e per aprire dibattiti.
Così è stata riscoperta dai massmedia una pagina della storia francese, ma anche d’Europa, che solitamente viene sottaciuta o addirittura ignorata, persino nei libri di scuola.
La cultura contemporanea, infatti, diretta erede di quella illuministica, ha sempre assunto una posizione di acritica esaltazione della Rivoluzione del 1789 ed ha superficialmente liquidato la Controrivoluzione Vandeana come un episodio di scarso rilievo che ebbe per protagonisti pochi contadini bigotti. Gente ignorante, che non aveva capito la grandezza delle nuove idee e i vantaggi del nuovo ordine prodotto dal trilemma liberté-egalité-fraternitè, e si ostinava a restare fedele a Dio e al Re, combattendo eroicamente e tenacemente contro chi questi princìpi voleva insegnarglieli a colpi di baionetta.
Considerato poi, che è difficile conciliare libertà e soprattutto fraternità con l’opera delle Colonne Infernali che chiusero definitivamente la questione vandeana massacrando alcune migliaia di donne e bambini, compiendo atrocità inaudite, radendo al suolo decine di villaggi e bruciando boschi e campi, in modo che la vita non potesse ritornarvi, molti storiografi hanno preferito non approfondire e anzi dimenti¬care persino che ci fosse mai stata una Controrivoluzione Vandeana.
Simile sorte, ma con esito opposto, è toccata a quella che potremmo definire la Vandea Italiana: la spedizione guidata dal Cardinale Fabrizio Ruffo contro i giacobini della Repubblica Partenopea, nel 1799.
Anche di questo caso la storiografia ha dato un’interpretazione semplicistica ed ideologica, definendo “patrioti” i giacobini napoletani della repubblica partenopea e bollando invece come bigotti i sanfedisti fedeli al sovrano e alla fede che combatterono al seguito di Ruffo. Anzi, poiché la controrivoluzione napoletana fu vittoriosa e su di essa non scese il silenzio della morte che seguì il genocidio vandeano, oltre che bigotti, i sanfedisti furono additati anche come i sanguinari carnefici che decapitarono un’intera classe intellettuale per ordine di un re Borbone “rozzo ed ignorante”, manco a dirlo!
Ma le analogie tra i due avvenimenti non si esauriscono nella interpretazione che i divulgatori storici ne hanno dato e gli elementi comuni sono tanti da permettere di tracciare delle note parallele.
Innanzi tutto, tanto in Francia quanto nel Regno di Napoli, i protagonisti furono gli stessi: da una parte una minoranza di intellettuali, cresciuti nei circoli massonici e nutriti di teorie illuministiche, che pretendevano di ricreare il Mondo, l’Uomo e la Società, rendendoli perfetti attraverso una serie di idee astratte, come la Libertà, la Ragione, l’Eguaglianza, la Ricerca della Felicità (tutte rigorosamente scritte con la maiuscola, quasi a personificarle) che assumevano caratteri religiosi, quasi magici;
dall’altra parte il popolo, quello vero, cresciuto nel¬la propria tradizione secolare, nutrito dalla fede e abituato a misurarsi con la concretezza delle libertà e delle convenzioni di cui godeva, che viveva la quotidianità di un’organizzazione sociale che garantiva ad ciascuno la tutela, la cura e l’assistenza di una fitta rete di associazioni, laiche e religiose, alle quali si apparteneva per nascita, per fede, per mestiere, e che formavano un organismo vivo, corpo sociale, tessuto della comunità nazionale.
Quindi, i contadini vandeani e i lazzari napoletani avevano dei solidi punti di riferimento che difficilmente avrebbero potuto essere sostituiti dai “luminosi” enunciati giacobini, altisonanti ma vuoti.
Infatti, per difendere quest’ordine sociale e morale in entrambe le insurrezioni fu il popolo minuto a prendere le armi, trovando in un secondo momento guide autorevoli: la piccola nobiltà rurale in Francia, il Cardinale Ruffo nelle Calabrie, nominato Vicario Generale dal Sovrano.
In entrambi i casi, il valore dei combattenti, migliaia di uomi¬ni che sapevano maneggiare vanghe e utensili e non armi, fu riconosciuto apertamente dai nemici, truppe regolari, ben armate, che più volte furono costrette a riparare di fronte all’eroismo di ambedue le Armate Reali e Cattoliche. In Francia, Napoleone definì la guerra vandeana “uno scontro tra giganti”; a Napoli, il generale Championnet definì i lazzari “meravigliosi e guidati da capi intrepidi”.
Entrambe le guerre furono combattuto in nome “del Trono e dell’Altare” ed ebbero come simbolo la Croce, che indicava la legittima autorità e la Fonte dalla quale essa deriva.
Soltanto la conclusione fu diversa: i valorosi calabresi del cardinale Ruffo entrarono a Napoli il 13 giugno 1799 e restituirono il Regno al re Ferdinando IV di Borbone.
La Controrivoluzione francese invece terminò con lo sterminio dei Vandeani per ordine della Convenzione, attuato con ferocia da generali come Turreau e Westermann. Quest’ultimo, alla fine, poté annunciare «Non c’è più Vandea, cittadini repubblicani! Essa è morta sotto la nostra libera sciabola, con le sue donne e i suoi bambini».
Un’altra differenza divide ancora le due guerre: per quella vandeana si sta finalmente giungendo ad un recupero storico che renda giustizia e onore alle decine di migliaia di martiri. Appena lo scorso anno è stato inaugurato un suggestivo Memoriale nel villaggio di Les Lucs cancellato dalle Colonne Infernali che uccisero tutti i 600 abitanti – il più giovane aveva 15 giorni di vita – e tutta la regione francese è un unico grande museo, nel quale rivivono Cathelineau, Charette, Bonchamps e tutti gli altri eroi che combatterono per Dio e per il Re.
Al contrario, in Italia, la controrivoluzione napoletana continua ad essere coperta di calunnie e di ridicolo, come del resto avviene per tutta la storia del Regno delle Due Sicilie.
Non un cenno alle atrocità commesse dalle truppe francesi contro il popolo, agli assassini e alle violenze contro religiosi e monache, ai furti di opere d’arte e di beni della Chiesa, al tradimento di coloro che proclamarono la repubblica spalleggiati delle baionette straniere, mentre i lazzari stavano ancora combattendo in difesa della propria terra.
Anzi! La marchesa Eleonora Pimentel Fonseca, il duca Serra di Cassano, il principe di Moliterno, Lauberg, Cirillo, Russo, Pagano, Luisa Sanfelice e gli altri giacobini napoletani che materialmente aprirono le porte della capitale agli invasori stranieri, paradossalmente vengono ricordati come “patrioti e martiri della libertà” e ad essi si dedicano strade e scuole. Fior di “intellettuali” attuali hanno ottenuto onori accademici e sono stati abbondantemente finanziati con denaro pubblico per aver cantato le lodi dei traditori giacobini. E non si sono vergognati di affermare, tra un’apertura e una chiusura del portone di palazzo Serra di Cassano, che “il Sud oggi è sottosviluppato perché due secoli fa l’intera classe intellettuale fu cancellata dalla repressione borbonica”.
Troppo occupati a dolersi per la breve vita della repubblica partenopea, questi moderni giacobini in sedicesimo non hanno mai trovato il tempo di accorgersi che i rivoluzionari condannati a morte furono soltanto 99, un po’ pochi per essere l’intera classe intellettuale di un paese con 7 milioni di abitanti. Né sono riusciti mai a chiarire la stridente contraddizione di quei repubblicani asserragliati nel forte Sant’Elmo che pretendevano di “essere” il popolo napoletano – noi, il popolo era l’incipit dei loro proclami – e che cannoneggiavano la città massacrando proprio il popolo, quello vero, dal quale furono odiati, combattuti e sconfitti.