Gianandrea de Antonellis

Il Principe di Canosa profeta delle Due Sicilie

prima edizione 2018

pagine 120  –  € 12,00  –  sconto Soci 30%

 

 

 

Antonio Capece Minutolo, Principe di Canosa (Napoli 1768 – Pesaro 1838) fu un difensore del Regno delle Due Sicilie e della Casa Borbone. Combatté a viso aperto, con la spada e con la penna, contro le sette che muovevano il loro attacco alla Tradizione e alla legittimità con la corruzione, con la rivolta e con l’appoggio dell’invasore straniero.

Il Principe di Canosa combatté per il Re legittimo, per i diritti della Chiesa, per la dignità dell’aristocrazia, per i diritti del popolo, compreso quello di armarsi contro l’ingiusto aggressore.

La fedeltà ai principi che lo animavano lo portò a rinunciare a onori e guadagni e a subire l’esilio per mano di quello stesso Re in nome del quale aveva combattuto. Neppure la sua morte placò la furia dei nemici, che continuarono ad oltraggiarne la memoria consegnandolo alla leggenda nera della storiografia risorgimentale.

Di questa grande personalità, Gianandrea de Antonellis ricostruisce la biografia e pubblica pagine scelte dagli scritti politici, due “Voci per il Dizionario liberale” e un dialogo critico su quella “politica dell’amalgama” che, dopo la repubblica giacobina del 1799 e il decennio murattiano, aveva  reintegrato i settari ai posti già occupati nell’amministrazione dello Stato, in conseguenza del perdono concesso da Ferdinando IV di Borbone.

In appendice il testo del Decreto di scioglimento dei Sedili di Napoli (25 aprile 1800). 

 

Il contesto storico

Uomo di studio – di solida formazione filosofica e teologica – ma anche d’azione (raggiunse il grado di Alfiere nel battaglione Real Ferdinando) – intellettuale, politico, giornalista, Antonio Capece Minutolo aveva intuito che, contro il liberalismo e le sette, la battaglia delle idee sarebbe stata molto più efficace della repressione poliziesca.

Così, accanto a trattati giuridici sui diritti feudali, a dialoghi di filosofia morale, ad opere di filosofia politica (resta inedito un saggio di circa 2 mila pagine conservato nella Biblioteca di Modena), il Principe di Canosa scrisse commedie satiriche sul costituzionalismo liberale (“L’Isola dei ladroni o la Costituzione selvaggia, Krinon, Caltanissetta 1993) e articoli sul giornale contro-rivoluzionario “La Voce della Verità”, di Modena, dove era in esilio presso il Duca Francesco IV.

Fu uno dei protagonisti della gloriosa resistenza contro l’invasione francese del 1799, favorita dai traditori napoletani che instaurarono la repubblica giacobina. Quando i francesi erano alle porte e il re Ferdinando IV era già rifugiato a Palermo, i Sedili di Napoli (antiche ripartizioni amministrative della città, cinque delle famiglie nobili ed uno del popolo) rivendicarono, in nome di antichi diritti, l’elezione un governo di emergenza per affrontare il nemico, la Deputazione straordinaria del buon governo e della tranquillità della città.

L’iniziativa fu presa in contrasto con le decisioni del Vicario generale del Re, Francesco Pignatelli, che invece firmò con i  francesi un patto di non aggressione.

Il Sedile di Porta Capuana, al quale i Capece-Minutolo appartenevano, elesse per acclamazione come proprio rappresentante il Principe di Canosa, che armò i lazzari, contrari alla resa e irriducibili nella difesa della Città (20-23 gennaio 1799).

Il governo aristocratico durò poco e la generosa resistenza dei lazzari – il popolo basso di Napoli – fu travolta, con il massacro di 60mila combattenti. Il Principe di Canosa, arrestato in aprile, fu rinchiuso a Castel Sant’Elmo e condannato a morte dai giacobini, con l’accusa di aver partecipato alla congiura realista dei fratelli Baccher.

Ma la sentenza non fu eseguita perché l’Armata cristiana e reale del Cardinale Fabrizio Ruffo era ormai alle porte di Napoli. L’11 luglio 1799, i giacobini asserragliati a Castel S. Elmo si arresero e Canosa fu liberato.

Paradossalmente, la resistenza al nemico, in nome dei diritti dell’aristocrazia e del popolo di Napoli, costò a Capece Minutolo un nuovo arresto – con l’accusa di essersi opposto alle direttive del Principe Pignatelli – per ordine del re Ferdinando IV, che sciolse definitivamente i Sedili.

Nonostante la condanna a cinque anni di carcere, nel 1806, quando i francesi stavano per occupare nuovamente il Regno, Canosa decise di seguire il Re e la Corte a Palermo, facendo prevalere la fedeltà ai princìpi e il legittimismo sul risentimento personale.

Combatté, dunque, ancora una volta per i Borbone, organizzando da Ponza Ventotene la propaganda filoborbonica e progettando ardite operazioni di guerriglia per rapire personalità legate ai francesi, puntando ad armare nuovamente i lazzari come nella riconquista vittoriosa del 1799.

Ricercato dai francesi, con una taglia di 25 mila ducati sulla testa, lontano dalla famiglia, che era sorvegliata dalla Polizia, in una congiuntura politica divenuta apparentemente senza speranza per l’arrivo a Napoli di Gioacchino Murat (1808), per il Principe di Canosa cominciò una vita avventurosa, di lotta contro più nemici, quelli esterni, i rivoluzionari, e quelli del fronte interno, a volte più pericolosi.

Ricoprì incarichi prestigiosi: ambasciatore in Spagna, due volte ministro di Polizia, Consigliere di Stato, consigliere del Duca di Modena Francesco IV. Non accettò mai compromessi e non abbassò mai la testa, anche a rischio della vita. In esilio a Genova, scriveva in una lettera di essere costretto a vivere armato di due pistole nella sua stessa abitazione, rischiando in ogni momento di essere ucciso da sicari dei carbonari

Nella primavera del 1820, nel suo pamphletI Piffari di montagna”, Canosa previde i moti insurrezionali carbonari con due mesi di anticipo. La stessa lucida visione politica gli consentì di preannunciare l’insurrezione liberale del 1828 in Cilento e poi le rivoluzioni del 1848 che insanguinarono l’Europa.

Benedetto Croce lo definì un “Don Chisciotte della reazione”, riconoscendo falsa, però, l’immagine di sanguinario che la propaganda risorgimentale gli aveva attribuito e veri il valore intellettuale e la nobiltà d’animo.

Ma il Principe di Canosa non combatteva contro mulini a vento e portava a segno le sue operazione di intelligence contro “i settari” (aveva proposto agli Stati italiani pre-unitari un ministero di Polizia unificato). Proprio per questo – lo stesso Croce lo ammette implicitamente – Russia, Austria e Prussia imposero a Ferdinando IV di congedare quel ministro di Polizia che era diventato l’incubo di liberali, massoni e settari di ogni estrazione. “Il re – scrive Croce – pianse con lui della violenza che doveva subire.

Canosa fu costretto di nuovo all’esilio, definitivamente. Morì a Pesaro, il 4 marzo 1838. Povero, solo, dopo aver resistito a tutte le lusinghe di onori e ricompense offertegli a patto che cedesse sui princípi.

“Storico dell’avvenire” potrebbe essere definito, al pari di un suo grande contemporaneo, Joseph de Maistre, del quale condivise la battaglia ideale e la vicenda umana. 

 

L’autore

Gianandrea de Antonellis  (Napoli, 1964) è saggista e studioso del pensiero tradizionalista. Già docente presso l’Università Europea di Roma, collabora con l’Università del Molise.

Ha pubblicato tra l’altro “L’alloro e la quercia. La famiglia Nunziante e la sua fedeltà alla dinastia Borbone” (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2016) e le opere politiche di Ottavio Sammarco e Francesco Lanario per la collana “Napoli ispanica” (Club di Autori Indipendenti).

 

Il brano scelto

Un profeta inascoltato

Come accennato, Canosa non aveva certo il dono divino della preveggenza: semplicemente era stato fornito da Dio di una mente molto acuta, in grado di analizzare la realtà politica senza farsi ingannare dall’ottimismo tipico della mentalità illuminista (e di quelle da essa derivate: la liberale e la democratica): di conseguenza si comportò come una novella Cassandra, annunziando eventi luttuosi che si sarebbero inevitabilmente prodotti, ma incontrando nel contempo l’incredulità (e il fastidio) di coloro che cercava di mettere in guardia.

Sventato (apparentemente) il pericolo giacobino, la rivoluzione subisce una metamorfosi, come avviene dopo ogni sua momentanea sconfitta: il processo rivoluzionario, cioè, prosegue, ma cerca di apparire come più moderato. Per usare un termine non precisissimo, ma che rende il senso di questo mutamento, potremmo dire che si “borghesizza”, si fa “più borghese” e quindi più accettabile. Per usare adesso i termini proposti inizialmente da un noto saggio storico-politico del conte Alessandro Manzoni, potremmo dire che se la rivoluzione francese, giacobina e radicale, è ferocemente anticlericale e antimonarchica (attacca cioè direttamente il Trono e l’Altare), la rivoluzione italiana, vale a dire il Risorgimento, invece diviene sempre più moderata per farsi accettare dalle popolazioni italiane, passando dal Terrore al bonapartismo, dal giacobinismo del 1799 al liberalismo costituzionalista del 1820 e, più tardi, dall’estremismo mazziniano alla più rassicurante realpolitik cavourriana, di cui l’ambiguo motto “libera Chiesa in libero Stato” è forse il più chiaro esempio di “moderazione”. Cambia la maschera con cui la rivoluzione si presenta, ma lo spirito rimane inalterato.

D’altro canto, la cosiddetta Restaurazione, anziché opporre una reazione al processo rivoluzionario, preferisce proporre una conservazione di gran parte delle innovazioni, anziché tornare effettivamente allo status quo ante 1789 (ad esempio, nel caso napoletano, il mantenimento dei codici di stampo napoleonico promulgati da Murat). In sintesi: «I moderati moderano gli impeti della rivoluzione, i conservatori ne conservano gli effetti».

La democratizzazione – intesa come distruzione dello spirito aristocratico e del ruolo politico della nobiltà nella società – è dunque un passaggio che ha le sue radici ideologiche nel giacobinismo, ma pone le proprie basi, per quanto riguarda il Regno delle Due Sicilie, nella politica dell’amalgama realizzata all’inizio di quella che si dovrebbe definire non semplicemente Restaurazione, bensì mancata Restaurazione. Democratizzazione che avviene da un lato premiando i borghesi “novatori” con il mantenimento nel ruoli ricoperti (con il trattato di Casa Lanza), dall’altro togliendo all’aristocrazia il ruolo storico di appoggio e controllo nei confronti della Corona (con l’abolizione dei Sedili).

Tale visione è confermata dallo storico – non accusabile di simpatie reazionarie – Walter Maturi: «Poggiata da un lato su una classe dirigente infida e dall’altro su istituzioni democratiche, la monarchia napoletana si trovava in uno stato di estrema debolezza».

Va notato a questo punto che il principale nemico del Canosa, il ministro Medici fu un fautore non tanto del liberalismo democratico, quanto del dispotismo liberale e che Canosa, invece, volle contrapporre al potere assoluto del Re le tradizionali istituzioni aristocratiche, a partire dai disciolti Sedili.

La politica del Medici, volta a combattere i reazionari (i calderari) anziché utilizzarli in funzione anticarbonara, «riconduceva fatalmente sull’orlo della rivoluzione la monarchia napoletana, come l’avevano condotta i ministri del secolo XVIII».

 

La presentazione del libro si è tenuta a Napoli, il 21 aprile 2016.

Leggi la relazione del prof. Guido Vignelli alla presentazione del libro. 

Principe di Canosa (301.9 KiB)