Gennaro De Crescenzo

Ferdinando II di Borbone. La patria delle Due Sicilie

prima edizione 2009

pagine 141

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Il punto di partenza del saggio di Gennaro De Crescenzo è una data e la consapevolezza che essa segnò definitivamente le sorti dei popoli della Penisola e il destino di milioni di uomini: il 22 maggio 1859. In quella domenica di 150 anni fa, intorno alle tredici e trenta, nella reggia di Caserta, spirò S.M. il Re delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone.

Nell’anniversario della morte, l’Editoriale Il Giglio e il Movimento Neoborbonico hanno ricordato la figura di un grande Re e di un grande uomo con un convegno tenuto a Portici il 22 maggio 2009 proseguito con una splendida manifestazione a Largo di Palazzo il giorno successivo, durante la quale furono resi gli onori militari a Ferdinando II. Non poteva mancare, infine, un libro per celebrare il Re che fu l’autentico interprete del genio di un popolo radicato nella tradizione e proteso verso il futuro.
Con Ferdinando le Due Sicilie divennero il regno dell’orgoglio e dei primati. Senza di lui le Due Sicilie finirono nel tradimento e nell’oppressione.

Il contesto storico

La morte di Ferdinando II era il segnale che liberali e massoni attendevano per attuare finalmente i loro piani di conquista, già elaborati fin nei dettagli: neppure un anno dopo, l’11 maggio 1860, Garibaldi sbarcava a Marsala.

In quei dodici mesi, liberali e massoni ebbero un gran daffare: chiamare a raccolta i “fratelli d’Italia”; far viaggiare in valigie diplomatiche le “piastre turche” da Londra a Torino; “congedare” gli ufficiali dell’esercito piemontese per arruolarli come “volontari” dell’esercito rivoluzionario; corrompere generali e ministri pronti a tradire, i cui nomi erano da tempo nei taccuini degli agenti segreti; recapitare ordini e mappe a quei ministri e generali che già avevano tradito, giurando nelle logge; ingaggiare un falso generale dal passato losco e preparare la stampa a spacciarlo per eroe; acquistare armi e battelli a vapore; attendere l’arrivo di navigli e cannoni inglesi nel Tirreno; garantirsi che le potenze europee rimanessero inerti, perse in inconcludenti discussioni nelle corti e nei parlamenti.

Ma tutto questo poté avvenire soltanto dopo quel fatidico 22 maggio del ’59.
Con Ferdinando ancora in vita e nel pieno vigore dei suoi 49 anni, le speranze di riuscire ad invadere le Due Sicilie, sconfiggere il maggiore esercito e ridurre il regno più antico, popoloso, stabile e ricco della penisola a provincia piemontese erano davvero minime.

Questa ipotesi, realistica al punto da essere una certezza, trova conferma nella situazione del Regno prima dell’unificazione, che De Crescenzo descrive enumerando l’incredibile serie di primati che appartennero alle Due Sicilie in tutti i campi della cultura, della tecnica, delle scienze, dell’economia, dell’innovazione sociale e lavorativa, fino a farne la terza potenza industriale d’Europa.
E trova ulteriore e definitiva conferma nella politica stessa del Re, improntata ad una difesa ostinata, coraggiosa ed intelligente dell’indipendenza e dell’identità della Patria. Nei suoi 29 anni di regno, Ferdinando II si oppose con determinazione alle mire di Gran Bretagna e Francia e rispose sempre con fermezza e dignità alle intimidazioni, talvolta attraverso schermaglie diplomatiche talaltra schierando le truppe.

Ferdinando conosceva il progetto colonizzatore del Piemonte perché era stato proposto a lui per primo. Massoni e liberali infatti gli avevano già offerto la corona d’Italia, nella speranza di farne un proprio strumento con la prospettiva di un regno molto più grande e potente.
La sua risposta fu quella di un uomo onesto, che non prende con la forza e con l’inganno ciò che non gli appartiene, e di un saggio padre di famiglia, che non mette a repentaglio la vita dei figli per ottenere maggiori ricchezze. Per le stesse ragioni, Ferdinando si schierò in difesa del Papato e dei suoi diritti.
Le conseguenze furono la calunnia, la leggenda nera, l’ingiuria del Re Bomba o della “negazione di Dio”. E l’attentato di Agesilao Milano, al quale De Crescenzo dedica la corposa appendice, Nuove ipotesi sulla morte di un Re.
Molti dubbi, infatti, sorsero intorno alla morte di Ferdinando, causata da una misteriosa malattia contratta durante il viaggio verso Bari, nel gennaio 1859, dove la famiglia reale si recava ad accogliere la principessa Maria Sofia, sposa del primogenito Francesco. I sintomi si manifestarono subito dopo il soggiorno presso il vescovo di Ariano Irpino, Mons. Caputo, e si rivelarono refrattari a qualsiasi cura e tanto devastanti da fiaccare gravemente l’energico Re sin dai primi giorni e condannarlo ad una straziante agonia durata cinque mesi.
Si parlò con insistenza di avvelenamento ma né documenti né prove corroborarono questa congettura, né accuse formali furono mosse contro alcuno, neppure contro quel monsignor Caputo che i più consideravano colpevole.

De Crescenzo però propone una diversa interpretazione, sostenuta dal parere scientifico di un illustre paleopatologo dell’Università di Pisa, il prof. Gino Fornaciari. Dopo aver esaminato la sintomatologia e il decorso della malattia del Re come furono riportati dalle cronache del tempo, il professor Fornaciari è giunto alla conclusione che potrebbe essersi trattato di una setticemia con diverse complicanze, causata ad un ascesso saccato conseguenza della ferita inferta a Ferdinando nell’attentato di Agesilao Milano, l’8 dicembre del 1856.
In pratica, il colpo di baionetta all’inguine avrebbe provocato un’infezione profonda che lenta e silente sarebbe cresciuta fino a diffondersi attraverso le ossa o il sangue all’intero organismo.
Assume dunque un rilievo particolare la figura di Milano, presto liquidato come un povero esaltato isolato. Le ricerche d’archivio, invece, provano i suoi legami con ambienti massonici e i verbali del processo, troppo rapido e superficiale, sollevano inquietanti sospetti su tutta la vicenda terminata con una precipitosa esecuzione capitale.
La conclusione di De Crescenzo è semplice: l’attentato di Milano non fallì, ebbe invece un esito differito e l’unità d’Italia, che era prevista per il 1857, slittò di tre anni.

L’autore

Gennaro De Crescenzo è nato a Napoli nel 1964.
Docente di storia e letteratura in un liceo, è specializzato in Archivistica, Paleografia e Diplomatica e in Scienze della Comunicazione. Nel 1993 ha fondato l’Associazione culturale Movimento Neoborbonico.
Appassionato ricercatore, ha pubblicato L’altro 1799: i fatti (Edizioni Tempo Lungo, 1999) e Le industrie del Regno di Napoli (Grimaldi, 2002).
Per l’Editoriale Il Giglio, è autore di La difesa del Regno (con altri), di Contro Garibaldi, di I peggiori 150 anni della nostra storia.

Il brano scelto

«Secondo Francesco Saverio Nitti, tra il 1894 e il 1898, la spesa media relativa ad opere pubbliche, fu di 334 lire pro capite, per gli abitanti del Centro-Nord, di 110 lire per quelli del Sud. Tra il 1862 e il 1897, lo Stato italiano spese circa 458 milioni nelle bonifiche idrauliche: 267 per l’Italia settentrionale, 188 per quella centrale, meno di 3 per quella meridionale.

La crisi delle industrie del Sud fu rapida e inesorabile, soprattutto se rapportata alla contemporanea ascesa di quelle settentrionali. Interventi ordinari e straordinari anche più recenti non hanno cambiato la situazione e il divario tra Nord e Sud è divenuto sempre più netto e pesante.

La storia non si fa mai con i se, ma in questo caso si tratta di una certezza: se Ferdinando II fosse vissuto ancora qualche anno, l’unificazione italiana non ci sarebbe stata o non avrebbe avuto gli sviluppi che conosciamo. Di qui, allora, la necessità e l’urgenza di una sua eliminazione fisica, come si dirà in seguito.
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Tutti colpevoli, gli storici meridionalisti di ieri e di oggi, che per decenni hanno inseguito questa o quella tesi, questa o quella interpretazione quasi sempre legata ad una subalternità culturale che li portava a criminalizzare o ignorare la storia del Sud pre-unitario dei Borbone, fino a rapportare i suoi problemi addirittura all’epoca medioevale o a epoche quasi preistoriche.

Meglio accettare la tesi dei Meridionali inferiori, magari geneticamente, piuttosto che riconoscere le responsabilità di quella che fu una pura e semplice colonizzazione. Del resto, le classi dirigenti meridionali non potevano che essere subalterne alle scelte politiche centro-settentrionali per restare classi dirigenti e tramandarsi cariche politiche, cattedre universitarie o ruoli di intellettuali ufficiali. Subito dopo il 1860 furono licenziati persino gli impiegati delle ferrovie giudicati reazionari o borbonici dalla Polizia. Inutile dire come furono scelti i docenti, i giornalisti o gli stessi politici e che possibilità avevano di affermare la verità storica e rivendicare le proprie ragioni.

Tutti colpevoli di non scrivere, dire o gridare la verità sulle migliaia di Meridionali massacrati, chiamati briganti ed espulsi dalla storia proprio in quegli anni. Tutti colpevoli di non aver fatto nulla, o addirittura di avere indicato l’emigrazione come unico rimedio possibile per risolvere gli atavici problemi del Sud negli stessi anni. Impegnati in dibattiti sereni e distaccati e nell’elaborazione delle loro astratte tesi, lontani dal popolo che avrebbero dovuto rappresentare, contro quello stesso popolo, ignoravano colpevolmente le due più grandi tragedie che la storia d’Italia possa ricordare: quella del brigantaggio e quella ancora attuale dell’emigrazione.

L’unica strada che possiamo percorrere per risarcire i Meridionali morti o partiti in questo secolo e mezzo è quella della verità storica. Nell’attesa di classi dirigenti finalmente fiere e orgogliose, proprio come Ferdinando II, e degne di rappresentare il Sud di domani».

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