(Lettera Napoletana) La Battaglia del Volturno (1° ottobre 1860), combattuta dall’Esercito del Regno delle Due Sicilie contro gli invasori garibaldini appoggiati da piemontesi e reparti stranieri, viene ricostruita in un ampio articolo dello studioso militare Giovanni Pede sulla RID (Rivista Italiana Difesa n. 5, maggio 2018).
Utilizzando non solo le fonti risorgimentali, che hanno trasformato la battaglia in un romanzo epico a senso unico, ma autori “alternativi” come il cappellano dell’Esercito borbonico Giuseppe Buttà, testimone oculare della battaglia, il Capo di Stato Maggiore napoletano Giovanni delli Franci, e lo storico Giacinto de’ Sivo, oltre a memorie non agiografiche degli stessi garibaldini, l’autore presenta una cronologia della battaglia suddividendola sui fronti in cui fu combattuta, dall’attacco sferrato dai Napoletani, alle 3.30 del mattino del 1° ottobre, a S. Angelo (Caserta), sul fronte Ovest, fino al ripiegamento sulle posizioni iniziali, dopo quasi 12 ore di combattimenti, ed al rastrellamento compiuto dai garibaldini, la mattina del 2 ottobre 1860, ai danni della Brigata Ruiz. L’articolo è corredato da mappe sugli schieramenti dei due eserciti e del terreno di battaglia.
Quella del Volturno, scrive Giovanni Pede, «è una battaglia su cui si è scritto moltissimo, per decenni quasi esclusivamente dal punto di vista degli unitari». Secondo lo studioso, «gli unitari la combatterono e vinsero sulla difensiva nella certezza di un imminente intervento dell’esercito Sardo-Piemontese, ormai ai confini del Regno».
Per lo storico Giacinto de’ Sivo, in realtà, la battaglia del Volturno finì senza vincitori: «dopo la giornata – scrive nella sua ”Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861” – i regi restarono ai posti di prima».
«La battaglia del 1° ottobre – scrive da parte sua Giuseppe Buttà (Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta. Memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861) – militarmente parlando, se non si può dire assolutamente vinta dai regi moralmente lo fu, perché l’esercito piemontese dovette soccorrere poi quello a metà disfatto dei garibaldini. L’aureola di Garibaldi fu annientata in Capua da quei fidi e prodi soldati ed ufficiali che seppero lavare nel sangue le patite vergogne di Sicilia e di Calabria».
«Si trattò di uno scontro terribile per quantità di perdite – riconosce Pier Giusto Jaeger (Francesco II di Borbone) – nel quale i borbonici si trovarono più volte assai vicini al successo (…) i morti e feriti garibaldini superarono quelli napoletani. La resa della brigata Ruiz fece pendere dalla parte dei volontari il numero dei nemici catturati, ma anche tra le camice rosse si ebbero ben 1389 “smarriti”, ciò che dà un’idea di come interi reparti si siano dissolti nel panico, fuggendo verso la non lontana capitale e gettandovi lo sgomento. In complesso, Garibaldi perse circa il 20% del suo piccolo esercito. (…) Le perdite furono – continua Jaeger – molto simili a quelle delle più sanguinose battaglie dell’Ottocento».
La battaglia – osserva Giovanni Pede – «è stata molto spesso raccontata come una successione di episodi di valore garibaldino, a volte nemmeno collocati nell’ordine esatto in cui avvennero, senza riuscire così a dare il senso degli avvenimenti».
Così nell’articolo viene smentito uno dei falsi della propaganda risorgimentale, quello del massacro dei garibaldini guidati da Pilade Bronzetti a Castel Morrone (Caserta), sopraffatti dai Napoletani guidati dal maggiore Domenico Nicoletti dopo ore di combattimenti. «Dieci furono i caduti e 220 i prigionieri garibaldini secondo Nicoletti, che aveva guidato l’assalto, 4 i morti tra i napoletani. L’esiguità delle perdite – scrive lo studioso – smentisce così “il sacrificio dei dugento martiri”, come scrisse Giuseppe Garibaldi nelle sue memorie, che pure ebbe modo di contare i superstiti quando li riscattò da prigionieri a Capua».
«Dopo la battaglia – aggiunge l’autore – iniziò l’opera di mistificazione della verità. Rustow (il tedesco Wilhelm Rustow, un garibaldino che aveva il grado di Capo di Stato Maggior di Divisione, n.d.r.) scrisse di una delle più splendide vittorie che la storia del mondo abbia mai registrato, attribuendo ai Napoletani, solo di poco superiori ai volontari, una “forza doppia”. Un altro garibaldino, Mistrali, (…) scrisse nella “Storia della campagna dell’Italia meridionale” che la cavalleria napoletana (oltre 2.000 uomini) era stata ridotta “a 17 cavalli”, mentre le perdite furono solo una ventina!».
Più volte l’Esercito delle Due Sicilie fu sul punto di travolgere gli invasori. Alle 5 del mattino, a S. Angelo, i Cacciatori della Brigata Polizzy, “appoggiati da alcuni squadroni di Ussari”, scrive Giovanni Pede, avanzati in una fitta nebbia, fino a 100 metri dall’artiglierie garibaldina, “ebbero presto la meglio sui volontari” (i garibaldini, n.d.r). «Altri battaglioni di Cacciatori, quelli della Brigata Barbalonga proseguirono l’attacco, e furono questi Cacciatori i protagonisti di un episodio che avrebbe potuto cambiare le sorti della battaglia. (…) la carrozza di Garibaldi lungo la strada da S. Maria a S. Angelo nell’attraversare un ponticello venne assalita da un drappello dell’11° Cacciatori, guidati dall’alfiere Mariadangelo, che gli uccisero un cocchiere ed un cavallo. Buttatosi giù dalla carrozza, lo salvò la sua prontezza di spirito, e l’intervento di una drappello di Cacciatori genovesi, ma fu questione di attimi … e di fortuna …».
Sul fronte Est della battaglia, ai Ponti della Valle di Maddaloni, di fronte ai Monti Tifatini, erano schierati tre battaglioni Esteri, al comando del colonnello Johan Luka von Mechel, e reparti di fanteria di linea che fronteggiavano le truppe regolari della Divisione agli ordini di Nino Bixio. Quest’ultimo aveva collocato il proprio quartier generale sul Monte Longano, a Villa Gualtieri, protetto dalla Brigata Eberhard. Nonostante von Mechel, che – scrive Giovanni Pede, “disprezzava i garibaldini” – avesse sottovalutato le forze nemiche, dividendo le proprie in due gruppi di fuoco, sotto l’attacco napoletano la Brigata Eberhard si sbandò. «La Brigata Eberhard – scrisse Bixio a Garibaldi – ripiegando si ritirò disordinatamente, in gran parte sopra Maddaloni, lasciando al nemico le posizioni». Solo il mancato arrivo della Brigata agli ordini del colonnello Giuseppe Ruiz de Ballestreros, che si mosse con enorme lentezza, impedì ai napoletani di impadronirsi di Maddaloni.
Con i garibaldini combattevano, oltre a reparti stranieri, soldati piemontesi. «La 17° divisione di Giacomo Medici, costituita da (…) 5.000 uomini circa – scrive lo studioso – [era ]schierata a S. Angelo. Era la migliore divisione garibaldina, tutta di veterani del ’59 “congedati” dall’Esercito Sardo–Piemontese».
Smentito anche un altro mito: quello dei garibaldini “male armati” di fronte al più forte Esercito delle Due Sicilie. «Non è esatto – scrive Giovanni Pede – come racconta la vulgata risorgimentale, che i garibaldini fossero male armati. I 23.00 Enfield (fucili, n.d.r.) inglesi ricevuti nell’Estate erano ottime armi, mentre l’artiglieria disponeva, secondo lo storico garibaldino Rustow di 32 pezzi, in parte prelevati dagli arsenali di Napoli». (LN123/18).
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