(Lettera Napoletana) Quanti erano i “Mille”? 1.088 uomini e una donna, secondo l’elenco della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia pubblicato nel 1878. La sera del 5 Maggio 1860 finsero di impadronirsi a forza dei due piroscafi “Piemonte” e “Lombardo” della Compagnia Rubettino, con la quale avevano concordato il finto assalto.
Sbarcarono a Marsala, in Sicilia, l’11 maggio, senza essere disturbati da nessuno grazie alla complicità della flotta inglese, e dopo che il Piemonte aveva corrotto i Comandanti di numerose unità della flotta napoletana.
I “Mille” in grandissima parte provenivano dal Nord Italia (163 dalla sola Bergamo, 154 dalla Liguria) e da Paesi esteri. Tra loro i meridionali erano meno di 100. Pochissimi anche i volontari provenienti dallo Stato Pontificio.
Un libro – di parte risorgimentale e garibaldina – appena uscito, mette a fuoco la personalità di 50 componenti la spedizione di Garibaldi, considerata l’inizio dell’Italia unificata, ed ancora esaltata dai libri di scuola, come dalla quasi totalità della storiografia accademica.
“Storie di garibaldini scomparsi. Vite indegne, perdute e inesistenti”, di Massimo Novelli (Spoon River, Torino 2018, pp. 338) ricostruisce le biografie delle “Camicie rosse” sulla base della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia – che riportava i relativi decreti di privazione del diritto alla pensione per indegnità – di testimonianze, e di bibliografia. Si tratta di uno spaccato illuminante dei “Mille”, che andrebbe esteso a tutti i partecipanti all’invasione della Sicilia.
Tra loro c’erano disertori di più Eserciti, avventurieri che avevano combattuto sotto diverse bandiere, ladri che continuarono a rubare una volta giunti in Sicilia, sfruttatori della prostituzione, pluriomicidi inseguiti dalle Polizie dei Paesi d’origine, spie.
Francesco Filippo Anfossi (Nizza 1819 – Genova 1890?) viene ricordato in una storia della spedizione dei Mille (“L’insurrezione siciliana (aprile 1860) e la spedizione di Garibaldi”, Milano 1860) come “ un distinto uffiziale” che “servì nell’armata sarda ed espiò per lungo tempo coll’esilio il suo amore per la libertà”. Un poemetto di Maurizio Pellegrini (“La Spedizione dei Mille”, Lucca 1867) lo celebra tra gli “eroi”. Aveva fondato nel 1848 a Milano il Corpo dei “Volontari della Morte” per combattere contro gli Austriaci.
Nell’estate del 1848 Anfossi fu accusato di aver razziato oggetti di valore in un palazzo nobiliare nel Trentino ed arrestato. Secondo il generale piemontese e storico Ferdinando Augusto Pinelli i Volontari guidati da Anfossi non erano che “un’accozzaglia di scioperati avidi più di bottino che di pericoli”.
Anfossi era concittadino di Garibaldi che, nell’aprile 1860, gli scrisse invitandolo a raggiungerlo a Genova, dove preparava l’invasione del Regno delle Due Sicilie. Fu arruolato e messo a capo della quinta compagnia dei “Mille”. Ma a Calatafimi (15 maggio 1860), dove l’Esercito borbonico – fino al tradimento del generale Francesco Landi che dette l’ordine della ritirata, stava impartendo una dura lezione ai “garibaldesi” – fuggì dal campo di battaglia e si rifugiò dal Console di Francia a Palermo. Denunciato dai suoi compagni mentre stava per essere promosso generale, fu costretto a fuggire dalla Sicilia. Di lui si persero le tracce fino alla morte, avvenuta forse a Genova verso il 1890. Era il n. 18 dell’elenco ufficiale dei Mille pubblicato nel 1878 dalla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia.
Giuseppe Mario Crescionini (Bergamo 1815 – Bergamo 1888?) faceva parte, con il grado di Tenente, della quinta compagnia dei Mille comandata da Anfossi. Garibaldi – scrive Massimo Novelli nel suo libro – aveva fiducia nelle sue capacità e nella sua esperienza, tanto che a fine giugno 1860 lo mise a capo della Scuola militare, o Battaglione degli adolescenti di Palermo, poi ribattezzato Istituto Garibaldi. Era destinato agli orfanelli siciliani, che venivano addestrati e poi arruolati. Crescionini fu scoperto a rubare sulle paghe dei ragazzi e condannato a 10 anni di carcere.
Pietro Giacomo Ferrari (Brescia, 1836- Brescia 1863) era stato condannato a cinque anni di carcere duro dal Tribunale della sua città sotto il governo austriaco. Dopo avere forse disertato dall’Esercito piemontese, partì il 5 giugno 1860 da Genova per raggiungere Garibaldi in Sicilia, con altri 137 uomini guidati da Giacomo Medici (1817-1882),un mazziniano milanese. La condanna per furto di Ferrari “riemerse” – scrive Novelli – nel 1862, quando fu steso un primo ruolo nominativo degli sbarcati a Marsala – e nel 1864 il garibaldino, che era stato ferito gravemente a Calatafimi, fu cancellato dall’elenco degli aventi diritto alla pensione, ma facendo leva sul fatto di essere “un patriota”, condannato da “un giudice austriaco” fu riammesso alla pensione e si fregiò della medaglia dei Mille.
Augusto Manneschi (Siena, 1826-?), propagandista mazziniano, implicato in pugnalamenti di avversari politici, era stato soldato nella seconda compagnia dei Mille ed aveva ottenuto pensione e medaglia. La sua attività principale, in realtà, era quella di spia. Già nel 1854, un rapporto al Ministero dell’Interno del Granducato di Toscana lo segnalava come confidente della Polizia di Livorno. Un anno prima, inoltre, era stato processato a Firenze per falso in cambiali.
Il 4 febbraio 1861 – come testimonia un documento della Biblioteca Angelo Mai di Bergamo – Manneschi aveva segnalato alla Polizia piemontese, che lo cercava, la presenza a Napoli di Giuseppe Mazzini. Cancellato dai ruoli dell’“Esercito Meridionale” di Garibaldi, visse forse a Roma, dopo aver scontato una condanna a sei anni di carcere duro per aver ucciso un gendarme austriaco a Ragusa (Dubrovnik) in Croazia, e fece perdere le proprie tracce.
Tra i pochissimi meridionali che parteciparono alla spedizione dei Mille, c’era Giuseppe Rino (Messina 1839-? 1921?). Era – secondo lo studioso di parte risorgimentale Germano Bevilacqua (“I Mille di Marsala”, Manfrini editore, Rovereto 1982) “un ladro comune e ladro anche sacrilego più volte condannato”. Uno dei furti l’aveva commesso nella chiesa di S. Filippo Neri, a Messina. Con la divisa garibaldina continuò la sua attività, sottraendo un orologio con catena ad un possidente che lo aveva ospitato ad Alcamo.
Giulio Rovighi (Carpi, 1830- Nizza, 1904) era un garibaldino della prima ora. Figlio di un ricco commerciante di vini ebreo modenese, a 18 anni si era arruolato nella colonna di volontari modenesi e reggiani che combatté contro gli austriaci a Governolo (Mantova), fu sottotenente nella sesta compagnia dei Mille e raggiunse il grado di maggiore. Sembrava destinato alla carriera militare, ma si dimise all’improvviso il 24 marzo 1861.
A lui il maggiore agiografo garibaldino, Giuseppe Cesare Abba, dedica un ritratto nel suo diario apologetico “Noterelle di uno dei Mille”, mentre Gualtiero Castellini lo include nel suo “Eroi garibaldini” (Zanichelli, Bologna 1911).
Ma Rovighi, che poi emigrò a Nizza ed inventò un liquore amaro con il suo nome, fu escluso dalla pensione e dalla Medaglia dei Mille. Qualche anno dopo, nel 1866, quando tentò di arruolarsi nuovamente tra i volontari garibaldini, vide la sua domanda respinta come “inammissibile”.
Si era scoperto che nel 1857, trasferitosi a Torino, aveva svolto l’attività di “segretario del lupanare” di tale Rosa Merlo e perciò – secondo Germano Bevilacqua – era stato espulso dal Piemonte.
Di questo “eroe garibaldino” parlano con entusiasmo i libri di storia ed a lui è dedicata una strada nel centro di Carpi. “I garibaldini? Non tutti Santi”. Così Il Mattino (23.8.2018) ha intitolato la recensione di Luigi Mascilli Migliorini al libro-inchiesta di Massimo Novelli.
Ma di Santi, tra i seguaci di Garibaldi, non ce n’era neanche uno. Invece abbondavano ladri, spie, mercenari, sfruttatori della prostituzione ed altri ceffi da galera. (LN127/18).