I 300 anni dalla nascita di Carlo di Borbone (1716 – 1788) saranno celebrati in un Convegno di Studi a Gaeta (“300 anni di Carlo di Borbone. Dalla memoria storica all’identità culturale”, Hotel Serapo 5 – 6 – 7 febbraio) per iniziativa del Movimento Neoborbonico, con la partecipazione della Fondazione Il Giglio, il patrocinio del Sacro Militare Ordine Costantiniano di S. Giorgio ed in collaborazione con associazioni legittimiste e meridionaliste.
Al Convegno di Gaeta il prof. Guido Vignelli, studioso di dottrine politiche, autore, con Alessandro Romano, di “Perché non festeggiamo l’unità d’Italia” (Editoriale Il Giglio, Napoli 2011), traccerà un profilo del Sovrano borbonico. “Lettera Napoletana” gli ha rivolto alcune domande :
D – A 300 anni dalla nascita, in che cosa merita di essere ricordato Carlo di Borbone, primo Re delle Due Sicilie?
R – Secondo lo storico Franco Valsecchi, Carlo fu un Re sinceramente cattolico, fedele alla moglie, di vita sobria, dedito più al prestigio del Regno che ai propri interessi. Tuttavia, egli fu reso grande non tanto dalle qualità personali, quanto dalla cruciale situazione storica in cui visse; infatti egli seppe sfruttare le occasioni che gli permisero di rendere il Regno indipendente, forte e prospero. In lui si sposarono felicemente gli interessi dinastici dei Borbone e quelli popolari della “Nazione napoletana”, nella prospettiva di restaurare l’antica monarchia dell’Italia meridionale, rifacendosi a quella medioevale dei Normanni e degli Svevi.
D – Per quali opere Carlo è tuttora ritenuto un grande Sovrano?
R – Fedele al suo motto “deliciae Regis, felicitas populi”, Carlo curò non solo l’onore e l’indipendenza dello Stato, che da vicereame spagnolo diventò Regno autonomo, ma anche la sua potenza, stabilità e ricchezza. Ad esempio, egli aumentò l’influenza del Regno meridionale, favorendo un’alleanza strategica con l’Impero e la Francia in funzione anti – inglese e anti – prussiana. Pertanto egli fece realizzare molte grandi e utili opere – che tuttora possiamo ammirare – nel campo delle scienze e della educazione, delle arti e dell’archeologia, dell’industria e del commercio, della giustizia e della difesa; egli avviò anche una sorta di “politica ambientale”, come diremmo oggi, tutelando il patrimonio naturale e favorendo le comunicazioni interne, liberandole da brigantaggio terrestre e pirateria marittima. Ma la sua attività più caratteristica, sebbene discussa, è quella delle riforme in campo giuridico, amministrativo, economico, universitario ed ecclesiastico, realizzate durante il “periodo eroico” del regno.
D – Come mai Carlo di Borbone è stato elogiato dalla storiografia risorgimentale anti – borbonica, da Croce a Galasso?
R – In realtà, le testimonianze dell’epoca dimostrano che Re Carlo era cauto verso le novità dell’epoca e la Regina Maria Amalia ne diffidava, tanto che entrambi erano occultamente criticati come “bigotti” dagli esponenti dell’Illuminismo napoletano. Tuttavia, le monarchie dell’epoca tendevano a imitare il modello politico più prestigioso, ossia l’assolutismo centralizzatore di Luigi XIV di Francia; sia la Corte che il Governo napoletani erano “infranciosati”, ossia seguivano le pericolose mode francesi, anche in politica.
Bisogna infatti ammettere che le importanti riforme avviate nei settori prima elencati produssero conseguenze non solo positive ma anche negative. Da una parte, quelle riforme diedero prestigio al Regno, lo riordinarono e lo liberarono sia da abusi e soprusi interni che da pericolose influenze estere (come quella massonica, sebbene solo inizialmente). Dall’altra parte, però, le riforme suscitarono una tendenza laicizzante e secolarizzante che emancipava il Regno dalla “tutela” ecclesiastica, anzi dal Papato stesso; lo stesso Concordato con la Santa Sede (1741) fu steso principalmente per ridurre l’influenza della Chiesa nella politica interna.
Paradossalmente, gli storici antiborbonici esaltano il regno carolino non tanto per i suoi pregi quanto per i suoi difetti. Essi elogiano Carlo considerandolo come un sovrano inconsciamente “illuminato”, ossia influenzato dal nascente Illuminismo, e quindi un lontano precursore di quella rivoluzione liberale e risorgimentale che nel 1860 abbatté il Regno borbonico.
D – Che ruolo ebbero gli intellettuali e i giuristi “illuminati” nelle riforme caroline?
R – Pur essendo un sovrano assoluto, Carlo non amava imporsi nella vita amministrativa e si limitava a supervisionare le attività dei Consigli di Stato; per questo ebbe cura di circondarsi di collaboratori di fiducia e di valore, ai quali concesse fin troppa autonomia. Purtroppo, tra questi collaboratori, scelse o tollerò segretari, ministri e personalità appartenenti o legati a quell’ambiente illuminista che fu “l’ardente falange antivaticana”, come la chiamava Croce, ossia “il partito degl’intellettuali in soccorso dei governi”, come lo chiama Galasso. Da questo partito provennero le personalità più influenti del Regno, come ad esempio i due Galiani, Genovesi, Argento, Intieri, Broggia e Orlandi, i quali ereditarono l’opera modernizzante e irreligiosa avviata dal Giannone e dall’Argento e prepararono quella del Filangieri.
Intellettuali come Antonio Genovesi credettero davvero di essere incaricati d’inaugurare a Napoli un “secolo aureo” che avrebbe assicurato il trionfo dello spirito, della pace e del benessere, un po’come lo credette Voltaire alla vigilia delle grandi devastazioni rivoluzionarie. È significativo che Ferdinando Galiani, alludendo alla popolazione napoletana, scrisse: “Il Regno di Napoli è edifizio da farsi, e non cosa fatta”, anticipando quindi la famosa frase di Massimo d’Azeglio sull’italianità da creare dopo l’unificazione risorgimentale; solo che d’Azeglio pretendeva di “rieducare il popolo” con la cultura idealistica e liberale, Galiani invece con il razionalismo cartesiano, lo scientismo newtoniano e la politica machiavellica. Il risultato finale l’abbiamo oggi sotto i nostri occhi…
D – Quali conseguenze ebbe l’influenza del “partito degl’intellettuali” sulla vita politica del Regno?
R – La politica di riforma amministrativa, culturale e religiosa, auspicata dal “partito degli intellettuali”, fu organizzata dapprima dal marchese di Montealegre e dal Fraggianni, poi ebbe come protagonista il potente segretario-ministro Bernardo Tanucci, la cui abilità e furbizia, anche in campo diplomatico, è stata paragonata a quella del Cavour.
Questi governanti pretendevano che nessun potere pubblico o privato, laico o ecclesiastico, potesse ostacolare quello monarchico. In pratica, essi credettero che, per salvaguardare il potere regio, bisognasse da una parte rafforzare quello giudiziario e amministrativo, dall’altra indebolire quello della nobiltà di provincia e soprattutto quello della Chiesa; pertanto, il governo esautorò progressivamente dagl’incarichi amministrativi sia “baroni” che vescovi e abati… tranne quelli allineati al governo, ovviamente! Così si spiegano, ad esempio, la riduzione dei privilegi e delle immunità ecclesiali, l’esautorazione del “foro ecclesiastico”, l’abolizione del Tribunale del Sant’Officio, la tassazione di beni e rendite ecclesiali, l’espulsione dei Gesuiti.
Per quanto fosse morbida e graduale, questa rivoluzione suscitò numerose opposizioni da parte non solo del clero, ma anche di antiche magistrature, corti baronali, corporazioni e municipi, tanto che lo stesso Carlo ne frenò o ne sospese l’applicazione, con grande delusione del “partito degl’intellettuali”. Ma poi, sotto il regno del successore Ferdinando I e del suo ministro Caracciolo, questa rivoluzione riprese vigore, anche se fu completata solo dalla invasione napoleonica, che abolì del tutto l’Ancien Régime.
D – La bibliografia sul Regno di Napoli è ancora limitata, e quasi totalmente monopolizzata dalle storiografia idealistica. Ritiene che figure come quella di Carlo debbano essere ancora approfondita?
R – Bisogna notare che, anche come reazione alla grave crisi della identità nazionale, oggi c’è un ritorno d’interesse per le radici storiche e locali del popolo italiano, radici che non risalgono al Risorgimento ma sono ben più antiche; ciò ha favorito una ondata di studi sull’Italia preunitaria, sui Regni e sulle Repubbliche dell’ “antico regime” italico, specialmente di quello meridionale (pensiamo ad esempio ai saggi di Mario Rosa, Emanuele Pagano e Giuseppe Ricuperati). Ormai non solo la storiografia “revisionista” ma anche quella accademica stanno riscoprendo quei secoli aurei, tra la fine del Medioevo e il Risorgimento, nei quali la civiltà italiana, ben lungi dal costituire un’anomalia segnata dall’arretratezza “controriformistica” (come pretendevano De Sanctis, Croce e Gentile), pur non essendo più domina gentium, continuò però ad essere magistra gentium, non solo nel campo artistico ma anche in quello religioso e politico. Nel contesto di quell’epoca, anche la figura e l’opera di Carlo di Borbone possono e debbono essere, se non rivalutate, almeno riconsiderate. (LN96/16)