Il ’68
Per tutto il mondo occidentale, dall’una all’altra sponda dell’Atlantico, il 1968 è stato l’anno in cui ha cominciato a diffondersi e radicarsi quella che il pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira aveva definito, con profetica lungimiranza, la Quarta Rivoluzione.
L’ultima tappa del processo sovvertitore dell’ordine naturale, e di quello sociale che ne deriva, mira ad estendere i principi della rivoluzione in interiore homine, attaccando i gangli vitali stessi dell’essere umano.
Infatti, come il tronco di un albero può essere piegato, i suoi rami possono essere potati, i suoi frutti possono essere lasciati marcire e, ciò nonostante, l’albero continuerà ad essere ciò che è secondo la sua natura, così gli uomini possono essere piegati e assoggettati da idee e regimi che li costringono, in modi diversi, a vivere secondo principi contrari alla natura umana, che però, pur soffocata, rimane vitale e si rivela appena ne ha la possibilità.
Quando invece sono attaccate le radici dell’albero e non portano più nutrimento ma veleno, soltanto allora esso diventa sterile, inaridito e lentamente smette di vivere.
È necessario, dunque, avvelenare le radici stesse dell’uomo perché inaridisca ciò che lo rende umano, ed esso diventi lentamente materia vuota e priva di vita.
La Quarta Rivoluzione è la fase in cui questo processo si va sviluppano e i suoi veleni hanno cominciato a diffondersi nel corpo sociale proprio a partire dal quel fatidico 1968.
Quarant’anni dopo, in un anniversario celebrato come un evento epocale, ne proponiamo una lettura in chiave controrivoluzionaria attraverso gli articoli pubblicati su alcune riviste.
La rivoluzione sessuale
Ciò che in questo quarantennale irrita più di ogni altra cosa è il ritornello che viene costantemente ripetuto dagli ex sessantottini: “il ’68 è stata un’occasione perduta e i suoi ideali sono stati traditi”. Tutte le analisi che ci sono state propinate sull’argomento iniziano con questo stucchevole preambolo, il cui solo scopo è di convincerci che il ’68 nasceva da sacrosante richieste di quei giovani – anzi dei “giovani” sic et simpliciter – che volevano cambiare il mondo e quasi ci riuscivano se i loro grandi ed autentici ideali non fossero stati manipolati non si sa da chi, non si sa come.
Indubbiamente la figura dell’eroe sconfitto ha un fascino che quella dell’ingenuo manipolato certamente non ha; ciò nonostante, se non si esce dall’alone nostalgico che avvolge i ricordi, difficilmente si può capire che cosa sia veramente successo quarant’anni fa.
Cominciamo col dire che nessuna rivoluzione della storia umana è scoppiata al grido di “distruggiamo tutto” oppure “conquistiamo il potere”. Tutte, al contrario, hanno proclamato di voler costruire un mondo migliore e di agire in nome della giustizia e della libertà, di essere alla ricerca della felicità. Nei teoremi rivoluzionari di ogni tempo, la fase della distruzione è stata rappresentata sempre come un breve accesso liberatorio, una sorta di big bang che sgombra il campo da tutto il male precedente e inaugura la fase della “vera rivoluzione” cioè la costruzione del mondo nuovo.
Forse che i rivoluzionari francesi del 1789 erano partiti con lo scopo di mozzare migliaia di teste? Certo che no, loro volevano libertà, eguaglianza e fraternità! Oppure, i rivoluzionari russi del 1917 avevano l’obiettivo di affamare e opprimere il popolo fino a totalizzare cento milioni di morti? Certo che no, anche loro volevano libertà, eguaglianza e fraternità! E così fu per i rivoluzionari cinesi, cambogiani, laotiani, cubani ecc. Sempre le rivoluzioni hanno sventolato bandiere con grandi ideali e sempre, sotto di esse, hanno raccolto migliaia di giovani: tutte, poi, si sono rivelate per quel che erano veramente. La rivoluzione del ’68 non fa eccezione.
Perché di rivoluzione si trattò, anche se l’apparenza era diversa, confusa nei versi delle canzoni, nel pacifismo dei figli dei fiori, nell’esplosione di colori nella moda, nelle nuove espressioni artistiche, nell’apparente cordialità del “tu” che aveva sostituito le vetuste formule dell’educazione borghese. Non di meno si trattò di una vera e propria rivoluzione, o meglio, dell’estensione della rivoluzione socio-politica già in atto alla sfera personale e interpersonale.
Esattamente come tutte quelle che l’avevano preceduta, la rivoluzione sessantottina si rivolse alle giovani generazioni, come sempre più inclini al cambiamento, meno frenate dalle necessità contingenti tipiche della vita adulta e, alla fine, più facilmente orientabili per mancanza di esperienza. Non a caso, quindi, essa ebbe inizio nelle università, facendo leva soprattutto sugli studenti “fuori sede”, quelli lontani dal controllo delle famiglie, provenienti di solito dalla provincia, aggregati in strutture di accoglienza e permanentemente presenti in facoltà, per le lezioni e per la mensa, lo studio, la biblioteca ecc.
Il meccanismo di penetrazione fu quello già sperimentato attraverso il metodo assembleare e movimentista: mescolare abilmente elementi di disagio realmente esistenti ed aspetti che non rappresentavano affatto problematiche concrete e sentite dalla maggioranza dei partecipanti alle manifestazioni, ma la cui affermazione e divulgazione era il vero obiettivo rivoluzionario da perseguire.
L’analisi della realtà era operata in chiave di “dialettizzazione”, cioè applicando le categorie concettuali della lotta di classe alle diverse situazioni, con l’individuazione di un “nemico comune” e la rapida estremizzazione dello scontro. Nelle università e nei licei fu il docente l’oppressore al quale bisognava sottrarre il potere; nei luoghi di lavoro fu il “capo”, a qualunque livello si collocasse; nella famiglia furono i genitori e segnatamente il padre. Persino nell’Esercito e nella Chiesa furono messi in discussione i concetti di gerarchia, di autorità e di obbedienza.
A questo punto bisogna stare attenti a non cadere nella semplificazione: la scelta di questi obiettivi non fu casuale né dettata dalla contingenza dell’epoca, che vedeva lo strapotere maschile in tutti i campi sociali. I bersagli furono scelti motivatamente e in funzione del risultato rivoluzionario che si voleva raggiungere. Nello sviluppo psicologico di ogni individuo, la figura paterna è determinante per due aspetti fondamentali della personalità: la costruzione della sicurezza di fondo su cui il bambino stratifica le proprie esperienze e definisce l’immagine di sé; l’acquisizione di regole morali e comportamenti sociali.
Il padre è colui che provvede e protegge, è il modello da imitare ovvero l’obiettivo alto da raggiungere, ma anche colui che pone il limite, che dà la regola, che punisce. La madre, invece, ha un altro ruolo: quello di soddisfare continuamente e certamente le necessità e i desideri, sia affettivi che materiali. Non per niente, nelle famiglie di una volta, si ricorreva alla mamma per ottenere solidarietà e aiuto nell’aggirare le regole paterne e, allo stesso tempo, la classica minaccia materna era “lo dico a tuo padre!”. Il ruolo del padre è di tale importanza nello sviluppo dei figli che la sua funzione perdura anche in caso di morte, purché se ne conservi il ricordo e la venerazione: è da questa consapevolezza che derivano i concetti di patria e di tradizione intesa come lascito di chi ci ha preceduto (da tradere = consegnare), per non parlare delle implicazioni teologiche dei concetti correlati di paternità e creaturalità.
Come gli individui, così le società che perdono o, peggio, rinunciano alla figura paterna mancano di stabilità e sviluppano una serie di devianze che incidono profondamente sulla concezione della persona e sui rapporti interpersonali.
È appunto ciò che è accaduto in questi quarant’anni: la rivoluzione sessantottina ha ucciso il padre e la società che ne è derivata è cresciuta senza regole, senza coscienza del limite, senza slancio verso l’alto, convinta che la propria identità consista nei propri desideri.
Gli slogan che caratterizzarono il ’68 sono l’espressione più chiara dell’obiettivo che gli organizzatori si proponevano: famose sono le scritte sui muri della Sorbonne poi adottate anche in Italia, come “Dimenticate ciò che avete imparato e cominciate a sognare”, “La vita è altrove”, “Il sogno è realtà”, “2+2 non fa più 4”, “Godete qui e adesso”, “Anche voi potete volare”, fino ai celeberrimi “Vietato vietare” e “L’immaginazione al potere” entrati ormai a far parte della cultura corrente. Si capisce, a questo punto, perché uno degli ambiti di maggiore impatto del ’68 fu quello dei rapporti personali e della morale sessuale.
Liberata da ogni freno sociale e familiare e particolarmente stimolata da mode e comportamenti collettivi, la sensualità ebbe una vera e propria esplosione, alimentata dalla diffusione di quella “cultura del desiderio” che muoveva allora i primi passi e che oggi è divenuta criterio dominante. Se i limiti estremi della libertà sessuale furono raggiunti soltanto da poche frange, con le esperienze di comuni in cui tutto veniva “socializzato” – ambienti, cibo, denaro, droghe, donne, rapporti fisici, figli – tutti gli aspetti più convenzionali dei rapporti uomo-donna subirono profonde trasformazioni, al punto da realizzare quella che fu definita una vera e propria “rivoluzione sessuale”.
In breve, parole come fidanzamento, rapporti prematrimoniali, matrimonio, convivenza, adulterio persero l’accezione che avevano avuto fino ad allora; alcuni termini, poi, come verginità, celibato, astinenza, furono completamente demonizzati. Ovviamente non mancarono fior di studiosi disposti a dare supporto pseudoscientifico alla nuova morale liberatoria, teorizzando che reprimere le pulsioni sessuali fosse gravemente dannoso, qualunque fosse l’età e la condizione del soggetto. Le correnti femministe introdussero l’elemento ideologico, considerando la morale sessuale il principale strumento di oppressione delle donne nei secoli e la causa prima del prepotere maschile. I massmedia diedero il loro contributo con le campagne di opinione a favore dell’introduzione del divorzio e della legalizzazione dell’aborto, strumenti indispensabili sia per la diffusione della nuova morale, sia per il radicamento della cultura del desiderio.
La rivoluzione sessuale ha prodotto conseguenze che vanno ben al di là degli aspetti strettamente morali.
Ha convinto l’uomo contemporaneo ad abdicare a qualsiasi forma di controllo su se stesso, permettendo all’istinto di avere dominio sulla razionalità e sulla volontà, l’esatto contrario di ciò che millenni di civiltà avevano cercato di realizzare.
Ha mutato il significato dell’essere uomo e donna, attribuendo ruoli e comportamenti falsamente intercambiabili e finendo per destabilizzare persino l’identità sessuale.
Ha reso precari i rapporti interpersonali – uomo/donna, genitori/figli, adulti/giovani – e i rapporti sociali, slegandoli da qualsiasi forma di responsabilità.
Ha devastato la famiglia, divenuta una forma di relazione “a termine”, nella quale il rapporto sponsale è ormai incapace di condivisione e di progettualità e i genitori hanno rinunciato alle loro prerogative educative in cambio di un innaturale ruolo di “amici” dei figli.
Ha delegittimato le Istituzioni e qualunque funzione implichi un riconoscimento di autorità. L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo, ma in conclusione preme ritornare al nostalgico refren “il ’68 è stata un’occasione perduta e i suoi ideali sono stati traditi” per affermare una volta per tutte che è falso.
Il ’68 ha realizzato esattamente ciò che si erano preposti i suoi organizzatori: permettere alla rivoluzione, che nei secoli aveva attaccato l’ordine religioso, l’ordine politico e infine quello economico e sociale, di avanzare sull’ultimo territorio rimasto ancora intatto, l’uomo stesso e il suo ordine interiore. Allontanato dall’ordine naturale che è inscritto il se stesso, l’uomo ha perso la consapevolezza di sé e la sicurezza di fondo necessaria per affrontare la vita e costruire il futuro.
Il paradosso del ’68 è proprio questo: aver proclamato la libertà assoluta e l’abolizione di ogni limite e invece aver rinchiuso tutti nella prigione di un “qui e ora” senza speranza.
Marina Carrese
L’altra voce – aprile 2008