Foibe, un genocidio ideologico
Il trattato di pace firmato a Parigi il 10 Febbraio 1947, al termine della Seconda Guerra Mondiale, impose all’Italia di cedere alla Jugoslavia i territori della Dalmazia con la città di Zara, dell’Istria con Fiume, e di gran parte della Venezia Giulia con Trieste (che fu costituita territorio libero e tornò all’Italia alla fine del 1954). La firma del trattato segnò il destino di 350.000 italiani giuliano-dalmati ed istriani, che furono costretti a scegliere se rimanere nelle proprie terre d’origine, dominati da un feroce regime comunista, o se accettare l’esilio in Italia, lasciando tutto ciò che possedevano.
Per il 90% di loro fu chiaro sin dal primo momento che rimanere era impossibile: avevano conosciuto la violenza e l’orrore scatenato dalle truppe rivoluzionarie di Josip Broz Tito. Si era già consumata, infatti, la tragedia delle foibe. In due diverse fasi, tra il 9 settembre e il 13 ottobre 1943, all’indomani dell’armistizio italiano, e di nuovo dal 1° maggio 1945 in avanti, i titini, con l’aiuto di bande comuniste italiane, misero in atto un vero e proprio genocidio di matrice ideologica, per eliminare la borghesia e la classe dirigente del Paese, costituita, per ragioni storiche, soprattutto dalla popolazione di origine e cultura italiana. L’intenzione evidente, e premeditata, era di cancellare fisicamente ogni possibilità di opposizione, anche soltanto ipotetica, all’instaurazione del nuovo regime comunista jugoslavo.
Il terrore scatenato dall’OZNA, la famigerata polizia politica, fu attuato con metodi feroci e disumani. Le foibe erano cavità carsiche, profonde fino a 200 metri e spesso attraversate da corsi d’acqua sotterranei, nelle quali i titini scaraventarono migliaia di uomini e donne, giovani ed anziani, legati tra loro con filo spinato. Una sventagliata di mitra uccideva i primi della fila ed il peso dei loro corpi trascinava nelle voragini tutti gli altri, ancora vivi. La morte giungeva soltanto dopo lunghe ed atroci sofferenze. Sistemi simili furono utilizzati anche in mare.
Non fu possibile riesumare la maggior parte di quei corpi, né fare un calcolo preciso di quanti fossero gli infoibati e le vittime del terrore comunista, anche perché molte foibe erano inaccessibili, trovandosi in territorio jugoslavo. Si conoscono con certezza i nomi di 4.522 dispersi. Gli storici, in genere, concordano su una cifra minima oscillante tra le 4.000 e 5.000 vittime; calcoli più realistici si aggirano su circa 10.000; altri studiosi giungono fino all’impressionante numero di 20.000 morti. Non meno di 50 furono i sacerdoti infoibati.
Per decenni le atrocità delle foibe sono state negate e l’intera vicenda dell’esodo degli italiani d’Istria e Dalmazia ha rappresentato un buco nero nella storia più recente d’Italia. Cancellata dai libri di scuola, celata al grande pubblico, divenuta tabù per gli studiosi, sotto la pesante cappa dell’egemonia culturale della sinistra. Basti pensare che i lanci di agenzie giornalistiche sulla questione delle foibe pubblicati dal dopoguerra fino al 1990 sono stati poco più di 30; soltanto negli ultimi tempi, si è giunti alla cifra di 200 ogni anno (dati diffusi dall’agenzia di stampa Astro 9 colonne).
La verità non trovò spazio neppure quando si consumò l’ultimo strappo nella vicenda istriana: la cessione della cosiddetta zona B, cioè il territorio libero di Trieste, alla Jugoslavia di Tito, con il Trattato di Osimo ratificato il 24 febbraio 1977.
I discendenti degli infoibati e dei profughi hanno dovuto attendere fino al 2004 per vedere riconosciuta a pieno titolo la terribile odissea delle proprie famiglie come un capitolo non secondario della storia condivisa. Il 30 marzo 2004, infatti, la legge n. 92 ha istituito il “Giorno del Ricordo”, che si celebra il 10 febbraio, per mantenere viva la memoria delle vittime.
Ci è sembrato un doveroso tributo di giustizia narrare quella vicenda, e lo abbiamo fatto attraverso le parole di due testimoni.
Il primo è il prof. Giovanni Stelli, vicepresidente della Società di Studi Fiumani Archivio-Museo Storico e direttore di “Fiume. Rivista di studi adriatici”. Nell’intervista concessa il 10 febbraio 2006 ha narrato la tragedia del popolo istriano-dalmata, con la forza di chi l’ha vissuta in prima persona e la chiarezza dello studioso.
Il secondo è Tommaso Besozzi, famoso cronista ed inviato del settimanale L’Europeo, che in un suo articolo, pubblicato per la prima volta nel 1948, scoprì coraggiosamente l’altra faccia della medaglia, narrando la storia di quegli italiani che, spinti dalla propaganda del PCI, intrapresero il percorso inverso e andarono in Istria per costruire la “società socialista”.
Lì, al posto delle “sorti magnifiche e progressive” che erano state loro promesse, trovarono la realtà di un regime totalitario, basato sulla menzogna, sul sospetto, sullo sfruttamento degli uomini, considerati non esseri umani ma ingranaggi di un meccanismo, da sfruttare fino al punto di rottura. Anche la loro fu una storia di morte.
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