Le conseguenze della Legge 194/78, che ha legalizzato l’aborto in Italia e lo ha reso “garantito e gratuito” fino alla tredicesima settimana di vita del bambino, senza porre alcun limite, non si esauriscono nei circa 110.000 aborti che ogni anno vengono praticati in questo Paese, nei 5 milioni e mezzo di bambini uccisi in meno di quarant’anni, o in  un tasso di abortività del 25% circa (cioè un bambino abortito volontariamente ogni 4 nati).

La 194 ha prodotto altre conseguenze, non meno gravi e devastanti, che condizionano la nostra società e le relazioni individuali, causando squilibri ed orrori che ormai fanno parte della cronaca quotidiana.

L’articolo che segue, pubblicato dal quotidiano Il Giornale, sabato 22 dicembre 2007 a firma di Cristiano Gatti, è un’intervista a Claudio Risè, psicoterapeuta, docente di Psicologia dell’Educazione alla Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Milano Bicocca, autore di numerosi testi sulle problematiche più scottanti relative al rapporto uomo-donna, al ruolo paterno, al disagio giovanile.

Nell’intervista, rilasciata a commento dell’ennesimo omicidio in ambito familiare, il prof. Risè delinea la stretta correlazione tra le leggi varate contro la famiglia e la vita (divorzio e aborto) e i fenomeni di violenza sempre più diffusa, tanto nell’ambiente sociale quanto all’interno delle mura domestiche. Il titolo è redazionale.


 

L’aborto è sempre omicidio: uccide il bambino e anche la società

Certo si fa prima a lavare via tutto questo sangue domestico con un pratico luogo comune, classico armamentario da cronisti svogliati, genere «improvvisa esplosione di follia tra le mura domestiche». Ma sì: un bel raptus,una bella depressione, e passiamo pure agli altri titoli del nostro notiziario…

Purtroppo tutti quanti sappiamo che non è così semplice. La semplificazione aiuta a rimuovere gli incubi, ma non a comprendere.

Sono grato a Claudio Risè – che dalla sua postazione di psichiatra e psicanalista è un acuto osservatore di umanità – per aver sgombrato molta nebbia. Per aver detto due o tre cose molto chiare. Per non essersi perso, come tanti suoi colleghi di grido, nelle chiacchiere da talk-show di metà pomeriggio o di prima serata. Chi abbia voglia di chiarire che cosa davvero stia succedendo nella famiglia italiana – vecchio o giovane, uomo o donna, di destra o di sinistra – può leggersi questa intervista. Si può dissentire, ma non è tempo perso.

Risè, sorpreso da tanti delitti domestici?

«No. Ci siamo costruiti un certo modo di vivere: i nodi stanno venendo al pettine».

 Quale il nodo più nodo?

«L’aborto. Siamo la prima società [in termini cronologici ndr] che ha legalizzato l’omicidio di un bambino. La stessa società che risparmia la vita a un criminale accertato, battendosi contro la pena di morte, uccide legalmente un essere indifeso».

 Il risultato?

«Accettato l’aborto, nell’inconscio di uomini e donne passa l’idea della violenza quotidiana, intima, familiare. Se si può esercitare violenza su un essere inerme, il resto viene da sé».

 Visione cristiana?

«Guardi, i più recenti studi francesi, cioè di un Paese veramente laico, attribuiscono alla legalizzazione  dell’aborto un peso enorme. È come il nullaosta alla violenza. A quel punto, l’uccisione è accanto a te come un’opzione praticabile».

 Crolla un tabù: l’intoccabilità della vita umana.

«Sì, crolla un tabù. Uso un termine che piace molto in quest’epoca: è lo sdoganamento della violenza.

Oltre tutto, della peggiore: non è neppure quella dei combattimenti bellici o della pena di morte, ma è contro un bambino indifeso».

 E la famiglia, come ci leghiamo al problema della famiglia?

«L’aborto trasmette in casa un virus: a livello inconscio, rende praticabile l’uccisione anche in un ambito intimo e domestico come la famiglia, luogo una volta considerato sacro e intoccabile. Se l’uccisione non è più percepita come uccisione, salta tutto: il sacro della vita, il sacro della famiglia».

 Quando abbiamo deciso di demolire?

«Anni ’70. Casualmente, gli anni di aborto e divorzio. Curioso: mentre a livello sociale si combatteva per difendere gli interessi delle masse, cioè collettivi, con quelle leggi abbiamo messo sul piedestallo l’individuo. Prima, le persone pensavano che fosse interesse di tutti non uccidere bambini e tenere unite le famiglie, perché questo contribuiva al benessere della società.

Oltre la boa degli anni ’70, passa un’altra convinzione: quello che un individuo ritiene sia utile all’individuo, va fatto. Se c’è un impiccio come un nuovo bimbo, lo si rimuove. Se c’è un nuovo amore, o una nuova opportunità di lavoro, si cambia vita. È la fine della famiglia: ogni stormir di fronda può essere causa sufficiente per disfarla. Basta la semplice stanchezza del legame: prima veniva superata nell’interesse superiore della famiglia, cioè della società, ora diventa occasione per andarsene»

E la violenza?

«Se la famiglia è fragile, se non è più sacra (anche in senso laico), la famiglia può essere distrutta in ogni momento. C’è spazio per l’opzione della violenza. Ciò che una volta era intoccabile, adesso è toccabilissimo. Gli ultimi studi americani dimostrano che la maggior parte dei casi difficili – tossici, suicidi, carcerati, malati mentali – nasce tra i figli cresciuti senza padre, cioè in famiglie distrutte».

Dunque, vaghiamo tra le macerie degli anni ’70. Ma intravede una via d’uscita?
«Il malessere è forte. Però ci sono già importanti germi di cambiamento. Cresce il senso religioso. Il giudizio dei giovani su aborto e divorzio è molto più negativo di quello dei loro genitori: guarda caso, alle manifestazioni per gli anniversari di quelle leggi c’erano pochissimi ragazzi. In America c’è un fortissimo recupero del matrimonio indissolubile. I giovani non credono all’idea del matrimonio smontabile dalla sera alla mattina. O è per sempre, o niente. La verità è che i ragazzi non vedono nei miti degli anni ’70, i miti dei loro padri e delle loro madri, una via praticabile. È una via esaurita».

 Che via prenderanno, loro?

«Negli anni ’70 si sono smontate strutture sociali che stavano in piedi da secoli. Ne è nata una crisi di disperazione. Ma da questa crisi uscirà qualcosa di solido. Di nuovo. Il mondo senza valori di fine Novecento è ormai il mondo dei vecchi. Di quelli che l’hanno costruito. Gli ultimi rimasti a difenderlo».