La legge che nel 1978 legalizzò l’aborto in Italia è considerata una sorta di totem, davanti al quale va ad infrangersi qualunque richiesta di revisione o anche solo di riflessione. Si arriva persino a dichiarare che la 194 non possa essere messa in discussione per il solo fatto di essere una legge dello Stato, quasi che, in questioni giuridiche, il fondamento della verità risieda nelle decisioni del Parlamento e non nelle realtà concrete riconosciute dal diritto naturale.

Che gli abortisti – radicali, vetero-femministe e sinistri in genere – facciano di tutto per accreditare la intangibilità della 194 non meraviglia. Non è tollerabile, invece, che questa tesi non trovi valida opposizione da parte del fronte antiabortista, anche in casa cattolica.

Da tempo, infatti, movimenti pro vita, per timore di irrigidimenti da parte abortista, hanno inaugurato una “strategia del dialogo” che evita qualunque opposizione diretta alla 194. Secondo questa fallimentare strategia, in mancanza delle condizioni per ottenere modifiche della legge o per abrogarla, secondo la vecchia teoria del male minore, sarebbe più saggio limitarsi a chiedere che essa venga ben applicata nella parte della prevenzione e dell’aiuto socio-economico da offrire come alternativa all’aborto, evitando lo scontro sulla sua intrinseca iniquità, sulla voluta vaghezza del testo, sul “principio di autodeterminazione della donna”, e glissando su tutti quei nodi che possano far pensare ad una messa in discussione globale della 194.
Chi propone questa sorta di captatio benevolentia ritiene così di portare gli avversari a scendere a patti, attenuando gli effetti negativi della 194 ed enfatizzando gli ipotetici aspetti positivi – la “prevenzione” – sui quali il volontariato cattolico vanta un’esperienza che lo pone in posizione autorevole.

È una strategia errata e suicida: essa accetta implicitamente l’esistenza della legge 194 poiché non ne discute il merito ma l’applicazione; non risponde all’affermazione ultima degli abortisti, cioè la “scelta della donna” e, di conseguenza, riduce l’intervento a favore della vita a una lodevole opera filantropica che deve alzare le mani di fronte alla volontà della donna.
Si tratta, in definitiva, di una posizione cripto-abortista, nella quale sono scivolati diversi gruppi pro-life, alla quale si debbono ambigue dichiarazioni di esponenti di movimenti cattolici.
Inoltre, possiede una grave valenza diseducativa per chi si accosta al tema diritto alla vita e un forte potere demotivante per chi è già impegnato nella battaglia culturale contro l’aborto, giocando al ribasso in nome di un patetico complesso di inferiorità rispetto alla cultura dominante.

Pubblicata sul numero 32 della rivista Radici Cristiane (febbraio-marzo 2008), l’intervista che segue a Mario Palmaro chiarisce l’errore nascosto nella “strategia del dialogo”.

Filosofo del diritto e bioeticista, Mario Palmaro, fondatore e presidente nazionale del Comitato Verità e Vita, docente universitario, autore di numerosi articoli e pubblicazioni, è stato uno dei più battaglieri ed efficaci difensori della verità sulla vita, fino alla prematura scomparsa avvenuta nel 2014.


 

 

Professor Palmaro, come giudica quanto sta accadendo in questi giorni in Italia con il riaprirsi del dibattito sulla legge 194?

È un fatto molto positivo, perché significa che dopo trent’anni di aborto di Stato, la ferita aperta nel nostro Paese non si è ancora rimarginata. Chi sperava di mettere una pietra tombale sulle istanze dei nascituri, che non votano e non rilasciano interviste, dovrà rassegnarsi: ci sarà sempre qualcuno che non è disposto a conformarsi alla prassi e al senso comune. Ben venga un nuovo dibattito sulla legge 194. A patto però che sia una discussione seria. Che cioè si vada al cuore del problema, senza fermarsi alle solite questioni marginali che servono solo a far contenti gli ingenui e a lasciare le cose come stanno.

Sembra di capire che lei non condivida l’idea, diffusa anche in ambienti cattolici, che la 194 non sia poi una legge iniqua, ma solo una legge male applicata…

Mi batto contro la legalizzazione dell’aborto da quando avevo dieci anni, all’epoca in cui in Italia fu approvata la 194. Alle scuole medie facevamo discussioni in classe per convincere compagni e insegnanti che l’aborto non è un diritto ma un delitto. Esiste una “ortodossia” sull’aborto che trent’anni fa era affermata senza cedimenti da riviste e giornali cattolici, e che oggi dobbiamo difendere con i denti, perché c’è in giro molta confusione anche in alcuni ambienti cattolici tutt’altro che marginali. Prevale – quando va bene – una lettura teologico-morale del problema: l’aborto è un grave peccato, si dice. È vero. Ma poi si aggiunge: la legge 194 non è poi così male, anzi è necessaria per evitare l’aborto clandestino. E questa è, in termini filosofico-giuridici, un’eresia. E’ una tesi abortista. Basta la retta ragione per affermarlo.

Se poi si è cattolici…

Se si è cattolici, ci si vada a rileggere quanto Giovanni Paolo II scrive nella Evangelium vitae: il nostro compito non è solo quello – lodevole – di aiutare le donne con gravidanze difficili e distribuire pannolini. Dobbiamo innanzitutto denunciare pubblicamente che la legge 194 è gravemente ingiusta, e che ogni legalizzazione dell’aborto è inaccettabile. Una forma di opposizione che non deve mai essere messa fra parentesi, nemmeno per ragioni strategiche.

Che cosa risponde a coloro che parlano di “aspetti positivi della 194 ancora da applicare”?

La 194 non è una buona legge applicata male. Non c’è alcuna eterogenesi dei fini, ma al contrario la norma ottiene quello che vuole  e che promette: e cioè, che la donna possa decidere in maniera arbitraria della vita del proprio figlio. È il principio di autodeterminazione della donna. Ora, è inutile una discussione sulla 194 che non contesti questo punto. I cosiddetti aspetti positivi della legge sono assolutamente marginali. È chiaro che si deve fare di tutto per salvare anche un solo bambino. L’importante, però, e che non si dia l’impressione di accettare la “cultura della scelta”, per cui si dà per assodato il monstrum giuridico che dà alla donna il potere di decidere della vita o della morte del nascituro.

Alcuni fanno notare che all’articolo 1 la legge parla di “tutela della vita fin dal suo inizio”…

Intanto, non si chiarisce quale sia questo inizio, cavalcando l’ambiguità del termine. E poi, siamo di fronte a un colpo di genio dell’abortismo umanitario: dichiarare un principio che nasconda il senso dell’intera legge sotto il mantello dell’ipocrisia. Sarebbe come se una legge che regolamenta la pena di morte recitasse all’inizio: lo stato tutela i diritti dei detenuti.

Secondo qualche giurista, la 194 non conterrebbe un vero e proprio diritto di abortire per la donna. Lei è d’accordo?

Assolutamente no. A dispetto delle premesse, la legge 194 introduce nell’ordinamento un antiprincipio assai grave: il diritto di vita e di morte per la donna nei confronti di un altro essere umano innocente. Questo ius vitae ac necis è assegnato alla donna in maniera totale ed esclusiva, attraverso l’espediente della procedura, che trasforma un delitto in un atto medico pagato dai contribuenti.  

Perché capita di ascoltare giudizi assolutori sulla 194 anche da studiosi di area cattolica?

L’effetto peggiore delle leggi ingiuste è che con il passare degli anni si autolegittimano. Dopo trent’anni la 194 fa meno impressione, molti cominciano a metabolizzarla. Eppure questa legge ha fatto quasi 5 milioni di vittime innocenti, ha trasformato l’aborto in una questione esclusivamente femminile, ha escluso il padre dalla decisione. La 194 introduce l’aborto eugenetico, discriminando i concepiti ammalati. L’aborto viene escluso soltanto qualora il feto sia in grado di sopravvivere fuori dal corpo della donna. Non esiste alcun apparato sanzionatorio, ad eccezione dei casi di aborto colposo o contro la volontà della donna. Insomma: questa legge è un vero disastro. Altro che parti positive.

Alcuni, anche nell’ambito dei pro life italiani, propongono di rinunciare all’idea che l’aborto debba essere punito. Che cosa ne pensa?

È un grave errore, un sorprendente non-senso tecnico giuridico. Il diritto ha un unico linguaggio: stabilire precetti e divieti, e presidiarli con una sanzione. Che potrà anche non essere il carcere, quando ragioni di umanità suggeriscono il ricorso a misure alternative. Ma la pietà non può fare velo alla necessità di tutelare un bene giuridico fondamentale come quello della vita umana. L’infanticidio è, ad esempio, un delitto che mette insieme una colpa oggettivamente gravissima e una condizione spesso fragilissima della madre colpevole. Eppure, nessuno ha proposto – almeno per ora – di depenalizzare questo reato. Ora, non è possibile tutelare la vita del concepito senza l’arma della minaccia sanzionatoria, pur nelle forme e nei modi più compatibili con la natura di questo delitto. Ricordiamoci che l’abortismo si è affermato proprio rivendicano la depenalizzazione.

Si dice che una certa duttilità sui principi sia necessaria, perché oggi non è possibile abrogare o anche solo cambiare la legge 194. Lei che cosa risponde?

Sono più che mai convinto che oggi in Italia non esistano le condizioni per modificare anche di poco la 194. C’è una spaventosa mentalità abortista diffusa, che richiederà decenni di lavoro per essere capovolta. Dopo il referendum del 2005 sulla fecondazione artificiale, qualcuno ha parlato di “vittoria” della cultura della vita: un pauroso abbaglio. C’è però un elemento incoraggiante: le nuove generazioni sono meno ideologizzate dei loro nonni e dei loro genitori. E che cosa possiamo fare per questi ragazzi? Non certo annacquare la verità, per renderla più digeribile. Non certo dire che “la 194 è una buona legge”. Ma dire loro con forza che questa è una legge gravemente ingiusta.

Cosa risponde a quanti dicono che, con una simile posizione intransigente, si ostacolano cambiamenti positivi della legge 194 o della sua applicazione?

Che è una tesi assurda. I radicali si battono da quarant’anni per avere il massimo, e così ottengono almeno il minimo. E non si fermano mai. Solo se teniamo alta la posizione di bandiera possiamo esercitare sulla politica – che è luogo di mediazione – una benefica spinta verso la giusta direzione, anche a piccoli passi. Non mi spaventa morire in un mondo in cui ci sia ancora la legge 194. Mi spaventa morire in un mondo in cui più nessuno dice che la 194 è una legge gravemente ingiusta. Non mi spaventa morire in un mondo in cui gli abortisti sono la stragrande maggioranza. Mi spaventa morire in un mondo in cui tutti, anche gli antiaboristi, ragionano e parlano da abortisti.

Radici Cristiane, 32 – Feb/Mar. 2008

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