(Lettera Napoletana) La Chiesa senza voce e subalterna al potere politico della pandemia da Coronavirus non ha precedenti nella Storia. A partire dal VI-VII secolo, le pestilenze che periodicamente colpivano l’Occidente come l’Oriente trovavano Papi, Vescovi e Sacerdoti accanto ai fedeli nella preghiera, nell’amministrazione dei Sacramenti, nelle processioni, nelle quali si esponevano le reliquie dei Santi più preziose, e nell’aiuto materiale agli ammalati. La Chiesa metteva a disposizione della società ammalate il proprio sapere.

Un articolo del prof. Cyrille Dounot, docente di Diritto Canonico all’Università di Auvergne (Francia), sulla rivista cattolica VERBO (n. 585-586, 2020), del quale pubblichiamo una sintesi, ricostruisce il comportamento della Chiesa di fronte alle epidemie nei secoli scorsi.

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«Quando l’epidemia percosse la citta di Sant’Ambrogio, nel 1576, Carlo Borromeo ne era l’arcivescovo da tre anni. Nipote del papa Pio IV, questo santo vescovo applicò alla perfezione la Controriforma avviata dal Concilio di Trento. Dedito totalmente alla cura del suo popolo, si adoperò per stroncare quella che i posteri definiranno la “peste di San Carlo”. In primo luogo con mezzi soprannaturali, organizzando preghiere pubbliche – tra cui una processione alla cui testa, scalzo, portò le reliquie del “Santo Chiodo” – distribuendo la Comunione ed amministrando personalmente la Cresima agli infermi, organizzando riti di confessione e servizi funebri solenni.

In secondo luogo, incoraggiando i Milanesi con la parola e gli scritti. Infine, impartendo disposizioni a proposito dei doveri del clero della sua Diocesi durante l’epidemia di peste».

Alla questione se i sacerdoti avessero l’obbligo di amministrare i sacramenti alle persone contagiate, San Carlo Borromeo rispose chiarendo che, innanzitutto, i parroci dovevano rimanere al proprio posto e non fuggire di fronte al pericolo. Poiché essi avevano l’obbligo di residenza nella parrocchia, era legittimo secondo il diritto canonico riformato del Concilio di Trento (ses. 23, can. 1), sanzionare chiunque non rispettasse questa regola, prima con la censura, poi con la coercizione, infine con la privazione dell’ufficio. Un successivo decreto della Curia romana ribadì che tale obbligo riguardava a maggior ragione i Vescovi, i quali, tuttavia, potevano provvedere al proprio ufficio rimanendo in un luogo sicuro.

Inoltre, San Carlo stabilì che il clero, in tempo di peste, dovesse amministrare i sacramenti di necessità, cioè il battesimo e la confessione, anche a rischio della propria vita.

L’Arcivescovo di Milano sottopose le sue disposizioni al Papa Gregorio XIII (1572-1585), che lodò il suo operato e chiese il parere della Congregazione dei vescovi. Quest’ultima ritenne che esse fossero in linea con quanto insegnato da San Tommaso d’Aquino, secondo il quale “non è essenziale alla carità che l’uomo esponga il proprio corpo per la salvezza del prossimo, eccetto nel caso in cui sia tenuto a provvedervi”(II-II, q. 26, art. 5, ad. 3a).

Il 12 ottobre 1576, il Papa approvò il decreto della Congregazione, concedendo la facoltà che l’obbligo di amministrare i sacramenti, compresa l’estrema unzione, fosse soddisfatto da un altro sacerdote, al fine di consentire al parroco di continuare a confessare i fedeli non contagiati, che avrebbero avuto timore di avvicinarsi ad un sacerdote in contatto con gli appestati, e di assolvere alla predicazione e alle opere di carità.

Le norme decretate da San Carlo Borromeo divennero il modello di condotta episcopale in caso di epidemia.

Tra le regole dettate al clero, ve n’erano alcune sulle pratiche per evitare il contagio. Per esempio, i sacerdoti dovevano portare abiti stretti, evitare di indossare il piviale, la cotta e la stola; per la Messa dovevano utilizzare oggetti liturgici e calici personali, e, se possibile, celebrare su altari e in cappelle separate. Se il “distanziamento” non fosse stato possibile, le tovaglie dell’altare andavano cambiate ad ogni celebrazione.

Erano semplificati, in via precauzionale, alcuni riti liturgici. Il battesimo doveva essere amministrato immediatamente al neonato, per infusione (versando l’acqua sul capo, n.d.r.) e non per immersione, soprattutto in caso di contagio della madre. Il rito sarebbe stato poi completato in chiesa, una volta cessato il pericolo della peste. La confessione doveva essere svolta mantenendo una certa distanza tra penitente e confessore, e poteva tenersi in luoghi insoliti, come sulla soglia delle porte o alla finestra, per evitare al sacerdote di entrare nella camera dell’ammalato.

Nelle processioni pubbliche, che dovevano essere quotidiane, andava rispettata la “distanza sociale”: «gli uomini non si affollino né si addossino gli uni agli altri, ma stiano in file distinte e separati da intervalli, per non dar luogo al contagio». Si raccomandava al clero di non celebrare le Messe alla stessa ora e nella stessa chiesa, per evitare la concentrazione di persone. L’insegnamento della dottrina, cioè il catechismo, doveva continuare, ma svolto in luoghi aperti, come le piazze, gli incroci, i cimiteri.

San Carlo Borromeo prende in considerazione anche i rapporti con le autorità civili, le cui disposizioni non possono limitare la libertà e i diritti della Chiesa e dei vescovi, «che non sono meno responsabili della salute e della salvezza (eterna n.d.r.) del popolo». Sicché, le autorità hanno potere di decretare il confinamento, ma soltanto per un tempo determinato e preferibilmente limitandolo alle fasce deboli della popolazione, o a un quartiere, «senza per questo impedire i riti dell’Avvento, della Quaresima, delle feste di Pasqua e delle altre solennità, poiché non bisogna temere meno il contagio della peste dell’anima che di quella dei corpi».

Due secoli dopo, il papa Benedetto XIV (1740-1758) chiarì ulteriori aspetti della questione, in particolare se e come i parroci dovessero distribuire l’Eucaristia in tempo di contagio. Il papa Lambertini, anche per l’esempio eroico di San Carlo Borromeo che si recava personalmente dagli appestati, confermò l’obbligo dei sacerdoti, perché i fedeli contagiati «hanno diritto di chiedere l’Eucaristia e sono in grave necessità spirituale di riceverla». Però, a differenza del santo vescovo che vietava qualsiasi novità nella Comunione, Benedetto XIV, in un trattato (quindi, non in un atto di Magistero), ritenne che in caso di epidemia non fosse necessario osservare dettagliatamente i vari aspetti, lasciando al vescovo la decisione ultima.

Nel trattato vengono indicate numerose ipotesi (alcune bocciate, altre ammesse) sulle modalità di distribuzione dell’Eucaristia: inserire l’Ostia in un pezzo di pane o tra due ostie non consacrate, usare pinze o guanti per portare la particola alla bocca, depositarla su un ripiano perché l’infermo si comunicasse una volta allontanatosi il sacerdote, immergerla in un bicchiere di acqua o di vino non consacrato. Il papa riporta anche la convinzione di alcuni teologi che in caso di peste i laici possano ricevere la Comunione sulle mani, nude per gli uomini e coperte da un domenicale (un fazzoletto di lino bianco, n.d.r.) per le donne, oppure su una patena o un panno in modo che il fedele avvicini la bocca per assumerla.

Oggi come ieri, le calamità a volte forzano il diritto canonico, che patisce modificazioni, eccezioni, sospensioni, sempre temporanee e rispettose dei sacramenti. Ciò è totalmente conforme alla sua missione – la salvezza delle anime – e risponde, in tempo di crisi, all’esortazione di San Paolo: «La carità di Cristo ci spinge» (2 Cor., 5, 14). Oggi però assistiamo all’abbandono delle anime. (LN152/20)