L’industria del Regno di Napoli 1859-1860, di Angelo Mangone, seconda edizione rivista, introduzione di Gennaro De Crescenzo (Grimaldi & C. Editori, Napoli 2017, pp. 140, € 24,00)
Alla vigilia dell’unificazione, il Regno delle Due Sicilie contava, solo nella parte continentale, esclusa la Sicilia, su quasi cinquemila industrie. Il settore industriale occupava 195mila addetti (considerando solo le imprese con almeno 5 dipendenti ed escluse le imprese artigiane), circa il 6% della popolazione attiva.
La quota di addetti all’industria sul totale della popolazione (poco più di 7 milioni nella parte continentale del Regno) era vicina a quella del Piemonte (7,5-8%) e del Lombardo-Veneto, appartenente all’Impero Austro-Ungarico, e percentuali di quest’ordine di grandezza facevano registrare molti Paesi in via di sviluppo industriale all’epoca.
Nel 1860 l’industria delle regioni continentali del Regno delle Due Sicilie impiegava il 27% del totale degli addetti di tutti gli Stati italiani.
Questa fotografia dello sviluppo industriale delle Due Sicilie è contenuta nel saggio di Angelo Mangone, “L’industria del Regno di Napoli 1859-1860”, uno studio fondamentale per la ricostruzione della storia meridionale, uscito nel 1976 ma esaurito da anni, ora ripubblicato, con un’introduzione di Gennaro De Crescenzo, da Grimaldi Editori & C. con il contributo della Fondazione Il Giglio.
Tra gli addetti all’industria la quota di donne e di minori (pagati meno degli uomini per le stesse ore di lavoro) era di molto inferiore a quella di altri Paesi, a partire dal Piemonte – il 25% contro il 60% –, anche se questo comportava un aumento sensibile del costo del lavoro e dei prodotti, perché il Regno delle Due Sicilie, uno Stato cattolico attento all’insegnamento sociale della Chiesa, tendeva a preservare entrambe le categorie dalle fatiche delle manifattura industriale.
Lo sviluppo industriale non era ispirato dai principi del liberalismo ed orientato quindi esclusivamente al profitto ed era temperato dalle tutele sociali previste per i lavoratori, a partire dalla scrupolosa osservanza delle domeniche e delle feste, sulla quale vigilava la Polizia, ma era accelerato. Secondo i dati raccolti da Mangone, nel 1840 il numero di addetti all’Industria nel Regno continentale era intorno ai 75mila e “dopo 20 anni sarebbe salito a 195mila, con un tasso di aumento medio del 5%”.
Nel decennio 1849-1859 il numero di occupati nel settore industriale era cresciuto del 77%, il valore aggiunto prodotto dall’Industria del 147%, la produttività media del 39% ed i salari del 18%. Per quest’ultimo dato va tenuto conto che si viveva in regime di prezzi stabili.
Nei settori base, che richiedevano maggiore impegno di capitali e di risorse materiali, a guidare lo sviluppo industriale delle Due Sicilie, che avveniva trasferendo risorse dal settore agricolo a quello industriale, non erano i grandi proprietari, come in Inghilterra, né i banchieri, come in Germania, ma l’intervento dello Stato, coadiuvato da capitali agrari, commerciali, bancari ed esteri, attirati questi ultimi, dalla stabilità economica del Regno.
L’intervento dello Stato, comunque “non si allargò mai in campi diversi da quelli ritenuti essenziali per l’indipendenza del Paese”. Ferdinando II promosse la realizzazione delle Officine meccaniche di Pietrarsa, e il settore metalmeccanico era “il più prestigioso e rappresentativo” dell’industria del Regno, perché si trattava di un settore strategico per l’indipendenza delle Due Sicilie.
La nascente Industria delle Due Sicilie era protetta dai dazi doganali e sostenuta dalle commesse statali per l’Esercito e la Marina. Questa politica protezionista dei Borbone era uno dei bersagli della propaganda liberale. Antonio Scialoja (1817-1877), emigrato a Torino, poi ministro delle Finanze del Regno d’Italia, criticò duramente il sistema fiscale delle Due Sicilie “ma esso – osserva Angelo Mangone – venne sostituito con un sistema più gravoso (forse soprattutto per i poveri) parimenti non progressivo e più complicato”.
“Si era stigmatizzato – aggiunge Mangone – sempre da parte degli oppositori unitari e liberali l’incoraggiamento all’industria a spese dell’agricoltura mediante i dazi imposti sui prodotti importati, che facevano costare di più i manufatti del Regno, e talvolta su quelli esportati (….) con l’Unità d’Italia (…) le tariffe doganali furono più basse: si può immaginare che l’agricoltura poté risparmiare sugli acquisti di prodotti industriali forse un milione di ducati, ma ne pagò per lo meno sei per maggiori imposte, nel Regno – nel complesso – furono drenati almeno venti milioni di ducati all’anno in più, ma parte della contribuzione complessiva del Sud venne spesa al Nord, e soprattutto quella parte che fu spesa al Sud per investimenti servì all’istruzione ed ai lavori pubblici ed allo sviluppo della rete ferroviaria, ma non diede impulso e lavoro alle industrie del Sud”.
I Borbone avevano compreso che lo sviluppo industriale del Regno era indispensabile e questo spiega il forte impulso che fu dato all’industria nascente tra il 1840 ed il 1860 con l’aiuto dello Stato. L’agricoltura, infatti doveva fronteggiare la “crescente pressione demografica delle classi rurali” e “la crisi mondiale dei principali prodotti agricoli, come i cereali, per la concorrenza dei Paesi d’Oltremare”,
Lo sviluppo industriale, dunque, “avrebbe determinato il riequilibrio della popolazione attiva, decongestionando le campagne, e utilizzato più proficuamente le risorse disponibili per le più redditizie attività industriali”.
Dopo l’unificazione, la classe politica liberale ed unitaria mutò radicalmente il modello di sviluppo tracciato dai Borbone, in nome degli interessi dell’industria del Nord. Il Sud fu destinato all’agricoltura e, per facilitare l’operazione, si negò la sua precedente industrializzazione e la propaganda risorgimentale enfatizzò il “ritardo” e “l’arretratezza” delle Due Sicilie. Una scelta della quale il Sud paga ancora le conseguenze.
“Fu un tragico errore puntare sull’agricoltura come attività base del Sud – osserva Mangone – ed ignorare (volutamente, aggiungeremo noi) la necessità di insistere nello sforzo di industrializzazione. (….)
“A parlare delle Industrie del Regno si finiva per passare per legittimisti e si preferiva parlare di ciò che non dava nel Regno, rimandare la matrice dell’insorgente decadenza economica al passato prossimo, poi a quello remoto, ed infine alla natura ed all’indole degli abitanti del Sud…”
Nacque così lo stereotipo del Sud contadino, popolato da “terroni” buoni solo a lavorare la terra. Ed in futuro, a fornire braccia all’industria del Nord con l’emigrazione.
Ma la storia vera dell’industria meridionale è un’altra. Questo libro la racconta.