Mario Montalto

L’Esercito delle Due Sicilie

prima edizione 2005,
pagine 40, 8 immagini a colori

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Le sensiglie erano bandiere reggimentali appartenenti ai Tercios della Napoli ispanica.

Riadottate dalla fanteria dell’Esercito delle Due Sicilie, erano segni distintivi dei tre battaglioni reggimentali. Con questa nuova collana, che presenta testi facilmente fruibili che mettono a disposizione del lettore informazioni altrimenti disperse e difficilmente reperibili, Il Giglio vuole raccogliere la forza simbolica degli antichi stendardi militari per difendere, con lo stesso spirito, la memoria storica delle Due Sicilie.

Il volume che inaugura la collana è dedicato all’Esercito delle Due Sicilie ed è stato scritto dal contrammiraglio Mario Montalto, esperto di storia militare e collaboratore della rivista L’Alfiere.

Il testo ricapitola la storia delle formazioni militari borboniche, da re Carlo a Francesco II, e rievoca gli episodi in cui fu più evidente il valore dei soldati napoletani.

Il contesto 

Tra le mille leggende nere sul Regno delle Due Sicilie che si diffusero dopo l’unificazione d’Italia, una delle più durature e, diciamolo, delle più offensive per i Napoletani fu quella sull’esercito di Franceschiello.

La definizione, dal chiaro intento caricaturale, voleva evocare l’idea di un esercito formato da soldati infingardi, tutt’altro che ardimentosi e comandati da incapaci. Ovviamente era falso, ma i piemontesi ebbero gioco facile ad imporre la loro opinione, sia perché sono i vincitori a scrivere la storia, ed i manuali scolastici potremmo aggiungere, sia perché la guerra di occupazione l’avevano vinta. Per capire quanto le loro accuse fossero ingiuste, basta pensare che la Real Accademia Militare Nunziatella, nata nel 1787, è ancora oggi una delle più prestigiose scuole militari.

Arricchito da 8 bellissime immagini a colori tratte dallo storico volume di Antonio Zezon, il testo ripercorre le tappe fondamentali della costituzione e del continuo sviluppo dell’esercito borbonico, a partire dal re Carlo fino a Francesco II, e rievoca gli episodi in cui più evidente fu il valore e l’onore militare dei Napoletani. L’autore prendendo in esame le tecniche di addestramento dei soldati, la composizione dell’armamento e le scelte tattiche operate in battaglia, arriva alla conclusione che: «L’Esercito borbonico era ben organizzato, addestrato ed armato, fornito di una dottrina militare moderna, di un’ottima organizzazione logistica. Era uno strumento militare estremamente valido ed autosufficiente».

Se nel 1860 i piemontesi poterono vincere la guerra, non fu per incapacità o per negligenza dei soldati napoletani, ma solo per «la corrosione ideologica che influenzò i quadri alti e medio alti». Probabilmente, i piemontesi parlando di esercito di Franceschiello avevano in mente non i valorosi soldati napoletani ma quegli ufficiali che essi stessi avevano corrotto, quelli che tradirono la Patria passando dalla parte di chi, poi, li disprezzò.

L’autore

Mario Montalto è nato a Napoli nel 1934 ed è stato ufficiale di carriera nella Marina Militare, congedandosi con il grado di Contrammiraglio.

Allievo dell’Accademia Navale, ha frequentato i corsi di Stato maggiore dell’Istituto di Guerra Marittima, l’Istituto Stati Maggiori Interforze e il Centro Alti Studi della Difesa.

Studioso di storia militare, ha collaborato alla rivista L’Alfiere. Un suo antenato partecipò il 21 settembre 1860 al vittorioso scontro di Caiazzo, dove i napoletani misero in fuga Garibaldi.

È autore di altri due volumi de Le Sensiglie, La Marina delle Due Sicilie e i Cacciatori Napolentani.

Il brano scelto

“Il 1 ottobre le truppe napoletane attaccarono da Capua, travolgendo le prime linee garibaldine.

Lo stesso Garibaldi fu sorpreso da un attacco dei Cacciatori napoletani ed ebbe ucciso il cocchiere e ferito un ufficiale del suo Stato Maggiore. I garibaldini, di fronte ai reggimenti borbonici entusiasticamente decisi a difendere il loro Re e la loro Patria, ebbero da rodere un osso veramente duro e capirono che la fortezza di Capua difficilmente avrebbe capitolato. Per prenderla, infatti, occorsero il bombardamento e le truppe piemontesi.

Quella del Volturno, combattuta nello stesso giorno e nel successivo, fu la battaglia decisiva, condotta offensivamente dai borbonici e difensivamente dai garibaldini. Fu assai dura e cruenta per entrambe le parti: l’una puntava a riaprire la strada per Napoli, rientrare nella città e sollevare la popolazione contro gli invasori; l’altra ad impedirlo, atteso anche che la liberazione della capitale avrebbe potuto segnare l’inizio di un’insurrezione generale (e che questo potesse avvenire fu confermato da diversi tumulti pro-borbonici che scoppiarono nell’immediata periferia di Napoli, quando giunse voce che il nostro esercito aveva attaccato battaglia e stava vincendo).

Per entrambi i contendenti fu l’unica, vera, importante battaglia campale combattuta dallo sbarco di Marsala e ad essa parteciparono anche reparti piemontesi. La strada per Napoli non fu aperta e questo segnò la fine. Le nostre truppe caddero ancora una volta nell’errore di frazionare le proprie forze e non seppero individuare quello che i tedeschi definiscono schwerpunkte concentrare, di conseguenza, tutto lo sforzo su di esso.

Tuttavia, i soldati si batterono con coraggio e determinazione, con la sola negativa eccezione, secondo qualche fonte, dei reggimenti della Guardia.

Il generale von Meckel, comandante la brigata Carabinieri esteri, vi perse il proprio figlio, giovane tenente: ne vide il corpo senza vita, gridò: “Vive le Roi!” e continuò a combattere. Al largo del Golfo di Gaeta bordeggiavano le navi della Marina Sarda. Avevano sostituito quelle francesi, che avrebbero dovuto coprire, dal mare, il fianco destro dell’esercito napoletano, disteso a difesa sul Garigliano. Questo aveva promesso Napoleone III al Re, ma poi si era rimangiato la parola data, scoprendo irrimediabilmente lo schieramento borbonico. Sulla marina e lungo l’Appia, fra Traetto e Mola di Gaeta, con l’ordine di ritirarsi appena fosse venuto a contatto con i piemontesi, un leggerissimo velo di truppe.

Tra queste, due compagnie del 6° Battaglione Cacciatori, comandate dal capitano Domenico Bozzelli, di Sulmona, e attestate tra i canneti lungo la riva del fiume. Il nemico tentò di attraversare il Garigliano in forze, avvalendosi di due ponti di barche costruiti più a valle di quello in ferro, che credevano minato.”

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