Èmile de Christen
Diario di un soldato borbonico nelle carceri italiane
introduzione di Silvio Vitale
prima edizione 1995
pagine 87, € 12,00 – Sconto Soci 30%
Il diario di prigionia scritto dal conte Théodule Emile de Christen, combattente cattolico e legittimista, volontario sugli spalti di Gaeta per la difesa del Regno delle Due Sicilie. Arrestato a Napoli nel settembre 1861, fu rinchiuso nel carcere di S. Maria Apparente, nel bagno penale di Nisida e nelle prigioni di Gavi, in Piemonte.
Pubblicato nel 1866, il Diario costituisce uno spaccato della repressione seguita all’unificazione d’Italia ed è la testimonianza in prima persona di quale giustizia fosse riservata ai napoletani.
Può essere considerato la risposta a Le mie prigioni di Silvio Pellico.
Il contesto storico
Nel 1860, la guerra che il Piemonte mosse contro gli Stati della Penisola e contro il Regno delle Due Sicilie chiamò alle armi molti ufficiali stranieri, francesi, spagnoli, russi, irlandesi. Accorsi in difesa del Papa e dello Stato Pontificio, nel timore fondato che potesse essere attaccato al pari degli altri regni sovrani, si schierarono con l’Esercito napoletano, agli ordini del re Francesco II di Borbone, nella consapevolezza che le sorti d’Italia sarebbero dipese dalla resistenza delle Due Sicilie.
La comune fede cattolica e gli ideali controrivoluzionari li spinsero a combattere come volontari, prima costituendo vere e proprie compagnie nelle fila dell’Esercito borbonico, e poi nella lotta popolare che seguì l’unificazione, bollata con il nome di brigantaggio.
Molti morirono in combattimento, altri furono fucilati senza processo al momento della cattura, altri ancora subirono la stessa sorte degli ottomila soldati napoletani deportati nelle carceri piemontesi di Gavi e di Fenestrelle.
L’autore
Il conte Théodule Emile de Christen era nato a Colmar, in Alsazia, nel 1935. Figlio cadetto di una nobile famiglia, si dedicò alla vita militare in giovane età, raggiungendo il grado di colonnello nell’esercito francese a venticinque anni.
Cattolico, legittimista, controrivoluzionario, si congedò nel 1860 per recarsi a Roma con l’intento di partecipare alla difesa dello Stato Pontificio.
Quando il re delle Due Sicilie, Francesco II di Borbone, fu costretto a lasciare Napoli, per continuare a Gaeta la difesa del Regno dall’attacco delle truppe garibaldine e piemontesi, il conte de Christen lo raggiunse e assunse il comando di un corpo di volontari stranieri, come lui accorsi in aiuto delle truppe napoletane. Guidò vittoriosamente le sue truppe in Abruzzo, a Bauco, dove con 400 napoletani sconfisse l’esercito piemontese dieci volte più numeroso. Alla caduta del Regno delle Due Sicilie, si recò a Napoli per appoggiare la resistenza borbonica contro l’occupazione piemontese.
Accusato da un delatore, fu imprigionato nel carcere di Santa Maria Apparente, nel quale rimase rinchiuso per un anno in attesa di giudizio e dove scrisse il suo diario. Condannato a dieci anni di galera e deportato in Piemonte, fu scarcerato dopo due anni, in seguito ad una amnistia, per le pressioni internazionali a suo favore. Libero da appena un mese, tornò a Roma e vi rimase per difendere il Papa, con il suo battaglione di volontari stranieri, fino all’arrivo delle truppe piemontesi nel 1870. Fiaccato da una vita spesa senza mai risparmiarsi, si spense per una grave malattia, a soli trentacinque anni.
Il brano scelto
Giovedì 15 gennaio
Il Capo Custode della prigione di Santa Maria ci risvegliò e ci ordinò di alzarci avvertendoci che alcuni gendarmi ci aspettavano per condurci alla galera. Chiesi di vedere il console di Francia, ma mi fu negato; e avendo io fatto osservare che il sig. de Bellègue avea domandato di essere avvisato in caso di nostra partenza, mi si rispose che il console francese e la Francia non aveano a veder nulla in questo affare.
I sigg. Caracciolo, De Luca e me scendemmo nella sala di aspetto dove un maresciallo d’alloggio di gendarmeria venne per istringerci i polsi nelle manette. E queste ci furono strette con tanta violenza da farne spicciare il sangue dai pugni.
Fummo condotti sulla strada di Pozzuoli, a piedi, tutti e tre legati. Il maresciallo d’alloggio ci consentì di prendere una vettura a nostre spese, e ci fe’ accompagnare da gendarmi a Cavallo. Nel mentre attraversavamo il villaggio di Fuor-di-Grotta, la popolazione si fece sul nostro passaggio e ci dimostrò francamente la più viva simpatia. La scorta ebbe il rinforzo di due gendarmi nell’uscire dal villaggio; vedette a cavallo perlustravano la via a brevi distanze, ma ciò non impediva ai contadini di correrci incontro e salutarci.
Arrivati a Pozzuoli, fummo condotti nel cortile del bagno. Un forzato portò tre catene del peso ciascuna di cinquanta libre, dicendomi che bisognava che ci facessimo mettere i ferri. Il primo fu Caracciolo, venne quindi la mia volta, per ultimo fu De Luca. Le catene ci furono ribadite ai piedi. Durante l’operazione un colpo di martello caduto in falso pestò il piede di De Luca. Fummo poscia spogliati di tutti i nostri abiti e ci si perquisì in modo ributtante (regolamentare del resto), e finalmente fummo collocati entro celle poste all’ultimo piano della galera.
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