La strategia suggerita dal protagonista de “Il Gattopardo”, cambiare tutto affinché non cambi nulla, ha consegnato il Regno delle Due Sicilie ai nuovi padroni, ma ha penalizzato anche la nobilità e il clero liberale che l’hanno favorita. È l’argomento della riflessione dello storico delle Dottrine politiche Guido Vignelli che pubblichiamo.
(Lettera Napoletana) (di Guido Vignelli) Nel suo celebre romanzo Il Gattopardo, il principe siciliano Giuseppe Tomasi di Lampedusa attribuisce al protagonista, il principe di Salina, questa frase diventata famosa e spesso fraintesa: “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
Una frase famosa e significativa
Con questa frase, il principe di Salina giustifica la scelta di passare dalla parte degl’invasori sabaudi, nella convinzione che potrà salvare quel poco di prestigio e d’influenza che gli rimangono solo sottomettendosi ai nuovi potenti venuti da Torino e abbandonando Re Francesco II e il Regno delle Due Sicilie al loro triste destino.
Questa scelta fatta dal principe comporta inevitabilmente la rinuncia a difendere non solo la causa del Trono ma anche quella dell’Altare. Egli se ne giustifica davanti al proprio direttore spirituale, osservando che Dio non ha promesso all’aristocrazia quella immortalità riservata alla Chiesa. Pertanto, egli si preoccupa di salvare la propria posizione nobiliare sacrificandole i diritti della classe sacerdotale, la quale è ritenuta capace di difendersi da sola dall’emergente potere laicista e anticristiano del cosiddetto Risorgimento.
Così facendo, il principe tradisce non solo i doveri che ha verso la legittima Monarchia ma anche quelli che ha verso la vera Religione; infatti, lo storico ruolo dell’aristocrazia cristiana è quello di tutelare i diritti del popolo, della civiltà e soprattutto della Chiesa.
Tuttavia, non possiamo accusare il principe di essersi “venduto al nemico”. Infatti, egli dapprima lo disprezza e deride, poi si rifiuta di avvantaggiarsi del suo trionfo, tanto che ne respinge la conveniente offerta di ottenere un prestigioso seggio nel nuovo Senato del nuovo Regno italiano.
Piuttosto, il principe sembra oppresso, non tanto dal tipico fatalismo siciliano, quanto dalla nostalgia della passata gloria e dalla melanconia per la presente decadenza, le quali gli suscitano un pessimismo che smorza l’orgoglio nobiliare e rende incapaci di reagire alla sconfitta dei propri ideali. Il romanziere suggerisce che questa debolezza del suo protagonista possa dipendere anche dalla passata vita dissipata.
L’autore del romanzo, altrettanto pessimista del principe di Salina, sembra giustificarne la decisione di cedere al nemico. Eppure, Giuseppe Tomasi di Lampedusa discende da un santo cardinale, col suo stesso cognome, che ha illustrato la Chiesa nel XVII secolo, il quale avrebbe certamente disapprovato la scelta del suo discendente. Ma soprattutto, il romanziere avrebbe dovuto valutarla in modo ben diverso, alla luce degli avvenimenti del XX secolo ch’egli aveva visto lungo la sua vita.
L’opportunismo politico non paga
Infatti, la tattica di “permettere che tutto cambi, affinché tutto possa rimanere com’è”, non solo è sempre condannabile dal punto di vista etico, e in particolare dell’etica nobiliare, ma è anche spesso fallimentare dal punto di vista politico. Sono proprio i fatti storici prodotti in Italia dal cosiddetto Risorgimento a dimostrare il fallimento del tatticismo di quegli aristocratici che, incapaci di reagire ai soprusi dei novi potenti, si sono adeguati alle loro prevaricazioni.
Basti qui considerare cosa è accaduto nella società italiana a causa dell’unificazione prodotta dalla “conquista del Sud”. Dopo il 1861, la classe nobiliare, non solo quella siciliana ma anche quella nazionale, per un certo periodo è riuscita a conservare alcuni privilegi e vantaggi, sebbene al caro prezzo di finire disprezzata da quelle classi – l’ecclesiastica e la popolare – che aveva rinunciato a difendere.
Ma poi, col tempo, i nuovi potenti della “borghesia rampante” si sono abilmente approfittati dei cedimenti nobiliari per impadronirsi dei gangli politici ed economici della nazione e per emarginare la classe aristocratica fino al punto di sostituirla con la propria. Alla fine, molte famiglie nobiliari, ormai decadute moralmente e politicamente, si sono impoverite e sono diventate dipendenti della nuova borghesia arricchita e dominante. Per carità di patria, non credo sia opportuno infierire sulla penosa condizione dell’attuale classe nobiliare.
Pertanto, all’aristocrazia del XIX secolo non è convenuto tradire la propria fedeltà alla Monarchia e soprattutto alla Chiesa, pur di sopravvivere per un certo tempo, finendo però col trasformarsi in una classe del tutto dipendente dal potere democratico, prima quello liberale e poi quello socialista. La nobiltà avrebbe fatto meglio a rispettare la propria vocazione storica, espressa da fieri stemmi e motti, come quello che dice: “nessun’altra preoccupazione che quella di salvare l’onore”. Per questo, forse la nuova classe aristocratica, quella che inevitabilmente sorgerà e dominerà in futuro, avrà ben pochi legami con quella del pur glorioso passato.
Nemmeno l’opportunismo clericale paga
Tuttavia, la lezione della Storia ci impone di essere imparziali, aggiungendo che pure la classe ecclesiastica ha poi avuto una parte di responsabilità nel declino di quella nobiliare e della intera civiltà cristiana.
Infatti, molti aristocratici furono spinti ad abbandonare la causa cristiana anche a causa del sempre minor sostegno ch’essi ricevevano dal clero, anche da quello di origine nobiliare. Nessuna delle due classi si sentì sostenuta dall’altra e tra loro scese una diffidenza che rese difficile far fronte comune contro quelle forze sovversive che, abilmente, aizzavano l’una contro l’altra per poi tradirle entrambe in favore della rivoluzione borghese.
Successivamente, la classe ecclesiastica ripagò quella nobiliare con la sua stessa moneta: ossia, dato che l’aristocrazia non aveva più difeso il clero per salvare la propria situazione politica, così il clero non difese più l’aristocrazia per salvare la propria missione religiosa. Del resto, come aveva detto il principe di Salina al suo confessore, la Chiesa è immortale e invincibile, non ha bisogno di una classe politica cristiana che la favorisca e la difenda.
Eppure, anche in questo caso, la Storia recente ha smentito questa grave illusione. La mancanza del sostegno nobiliare ha indebolito il clero e ne ha facilitato prima l’emarginazione dalla vita politica, giuridica e culturale, poi anche l’infiltrazione interna da parte di forze corrosive e sovversive, infine l’attuale persecuzione laicista. La mancanza di una classe politica cristiana ha favorito, dopo la secolarizzazione dello Stato, anche quella della Chiesa.
Per tutto risultato, oggi la Gerarchia ecclesiastica rimane bisognosa di ricevere sostegno per svolgere la propria missione religiosa, ma non può più chiederlo alla nobiltà né alla borghesia, bensì è costretta a chiederlo alla nuova classe dei settari che dirigono i regimi rivoluzionari. Possiamo quindi dire, col senno di poi, che al clero non è convenuto rinunciare al sostegno di quella nobiltà che per secoli gli aveva dato il contributo di così tanti santi, benefattori e difensori.
Insomma, la Storia dimostra che il popolo, come non può fare a meno di una classe ecclesiastica capace d’istruirlo e santificarlo nella Fede, così esso non può fare a meno di una classe nobiliare capace di governarlo cristianamente e di collaborare lealmente con il clero nella sua missione religiosa.
Ciò conferma che la legittimità politica, almeno quella di esercizio (il rispetto dei diritti dei governati e dei corpi intermedi, ndr),sebbene sia stata tradita prima dalla nobiltà e poi anche dal clero, non è una questione puramente di forma ma anche di sostanza, che quindi resta necessaria alla futura restaurazione della Civiltà cristiana. (LN175/24)