(Lettera Napoletana) Il libro di Nicolò Lentini sulla figura dell’Arcivescovo di Palermo Giovan Battista Naselli (Giovan Battista Naselli Arcivescovo di Palermo fra Regno delle Due Sicilie e Unità d’Italia, Ex Libris, Palermo 2021, pp.213, € 15) (cfr. LN 164/2022) è stato presentato il 12 luglio nell’Oratorio di San Filippo Neri a Palermo, nel corso di una tavola rotonda moderata da P. Corrado Sedda C.O.
Qui pubblichiamo il testo dell’intervento dello studioso Salvatore Carreca, autore di “Viaggio tra le meraviglie delle Due Sicilie 1735-1860” (Editoriale Il Giglio, Napoli 2018):
«L’arcivescovo Naselli visse i drammatici avvenimenti che videro la Sicilia prima, e poi tutta la parte continentale del Regno delle Due Sicilie, subire l’invasione militare garibaldina e piemontese, posta in essere senza nemmeno una formale dichiarazione di guerra. Il Regno, governato dalla famiglia Borbone, legittimi discendenti del trono normanno, era divenuto per la prima volta nella sua storia un regno indipendente grazie alla lungimiranza del re Carlo di Borbone che lo aveva reso autonomo dalla corona di Spagna. Regno di profonda fede cattolica, era da sempre legato alla Santa Sede.
L’Arcivescovo di Palermo Naselli, come giustamente definito da Lentini “pastore delle anime”, si adoperò nella “difesa del clero e dei poveri”, appoggiando anche l’opera del beato Giacomo Cusmano e del “Boccone del povero”, si trovò però a prendere atto della avvenuta conquista della Sicilia e a riconoscere inizialmente, senza alcuna remora, il nuovo regime.
Parte del clero, quello cosiddetto liberale e quasi tutta la nobiltà siciliana, già di posizioni anticlericali per la diffusione delle sette – radicate negli ambienti aristocratici già dalla seconda metà del’700 – era ostile ai Borbone per la politica troppo vicina al popolo (per esempio l’istituzione del Catasto Onciario del 1740 per cercare di tassare la proprietà terriera dei nobili latifondisti) e alla Chiesa di Roma.
Una parte della popolazione siciliana, istigata e sostenuta dalla nobiltà terriera, parteggiò inizialmente per Garibaldi che prometteva loro terre e libertà; tutto si infranse quando il regime rivelò il suo vero obiettivo: rendere la Sicilia una colonia da sfruttare. I beni ecclesiastici sequestrati furono in maggioranza incamerati dai nobili e dai borghesi filo-piemontesi. Di grande impatto negativo fu per i Siciliani anche l’obbligo della leva militare (con i Borbone erano esentati), voluta dai Savoia per le loro mire espansionistiche nel nord Italia.
Alcuni storici contemporanei di Naselli lo accusarono di essersi comportato come una sorta “collaborazionista” dei nuovi padroni, in contrasto con altri pastori che subirono invece persecuzioni e violenze per non aver aderito al nuovo corso. Cito per esempio il vescovo di Monreale Mons. Benedetto D’Acquisto che fu incarcerato, quello di Caltanissetta Mons. Giovanni Battista Guttadauro, quello di Caltagirone Mons. Luigi Natoli, di Messina, Mons. Giuseppe Maria Papardo e quello di Patti, Mons. Michelangelo Celesia, che subì anche il furto della sua carrozza servita a Garibaldi, affetto da artrosi, per presenziare alla Battaglia di Milazzo del 1860.
Don Giuseppe Buttà, cappellano militare del 9° Battaglione Cacciatori, unità che combatté contro Garibaldi e poi contro le truppe regolari piemontesi, nel suo libro del 1875 “Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta” attaccò Naselli con parole molto dure: “era di poco ingegno, gli eran piaciute sempre le comodità; ed era facile strumento degli astuti…V. Emmanuele, il 1° dicembre, sbarcò a Palermo, ove trovò organizzata una magna dimostrazione. Egli si diresse al Duomo, ove fu ricevuto dall’Arcivescovo Naselli, quello stesso che avea dato le incensate a Garibaldi…Il Re fece Commendatori de’ Santi Maurizio e Lazzaro gli Arcivescovi di Palermo, Naselli e di Monreale, d’Acquisto; il Torrearsa e Spedalotto furono fatti cavalieri”.
Lo storico Giacinto de’Sivo, già nel 1866, aveva scritto: “Questa vergogna del garibaldese elogio toccò anche a monsignor Giambattista Naselli arcivescovo di Palermo, siccome il primo prelato italiano che rendesse visita ad esso Garibaldi. Uomo era pusillo, facile strumento d’astuti: movealo un Luigi Siciliano suo procuratore, il nipote Sant’Elia, e certi pretuzzi italianizzanti, un Nascè, un Casaccio, un Teresi e altri che il tirarono a inchinarsi al dittatore; onde andò e tornò dall’Olivuzza alla casa pretoria, con turpi onoranze, tra suoni e strumenti e bandiere”.
Lentini, pubblicando le sue lettere pastorali, rende però giustizia alla buona fede di Naselli, che si rese conto tardivamente quanto ostili fossero i Piemontesi contro la Chiesa governata dal beato Pio IX.
Si racconta che Garibaldi, che odiava profondamente la Chiesa Cattolica, chiamasse un suo asino “Pionono” e che appellasse il Papa come “un metro cubo di letame”. E tanto per citare una frase tratta dalle sue Memorie: “Se sorgesse una società del demonio, che combattesse despoti e preti, mi arruolerei nelle sue file”.
Già nel 1862 Naselli non partecipò personalmente al Te Deum in cattedrale e nel 1866 indirizzò una lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri in difesa del clero palermitano accusato dal Generale piemontese Raffaele Cadorna di aver sostenuto la rivolta popolare del settembre 1866 (detta del 7 e mezzo). Il governo sabaudo, dichiarato lo stato di assedio, aveva mandato un corpo di spedizione di circa 40.000 soldati che soffocarono la ribellione nel sangue, sostenuti anche delle navi della Regia Marina che bombardarono la città di Palermo (come già avvenuto a Castellammare del Golfo nel 1862 per sedare una rivolta).
Infine nelle lettere pastorali del 1867 e del 1869 emerge la sincera Fede, la Speranza riposta nella Santa Sede guidata dal Papa e la Carità per il prossimo che il pastore delle anime Naselli seppe esprimere ed elargire nel suo impegnativo e difficile ministero». (LN165/22)