(Lettera Napoletana) La Sanità della Calabria è commissariata da 11 anni. Secondo la Corte dei Conti, in questo tempo il commissariamento ha ridotto il passivo “in valore assoluto di soli 6 milioni 291mila euro”, su un debito di 104 milioni 304mila al 31 dicembre 2009, cioè circa 600mila euro all’anno, per una voragine incolmabile (“Il Quotidiano del Sud”, 10.12.2020).
La Campania è stata commissariata per 10 anni, dal luglio 2009 al dicembre 2019, con il risultato per gli “assistiti” di vedere sospese ogni anno a marzo, per esaurimento del budget disponibile, analisi cliniche ed accertamenti diagnostici, e questo nonostante le addizionali IRPEF ed i ticket maggiorati pagati.
Le altre regioni del Sud, non commissariate, non stanno meglio. I viaggi “della speranza” per curarsi ed operarsi al Nord, in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, nel 2018 hanno coinvolto 318mila meridionali, con un costo di 1 miliardo 141 milioni. In testa all’elenco ci sono Molise, Basilicata e Calabria. In Campania, nel 2019, il costo delle cure fuori regione ha superato i 323 milioni di euro, in aumento rispetto al 2018 (Corte dei Conti, Relazione del Procuratore regionale per la Campania, 30.12.2020).
UN SISTEMA SANITARIO FALLITO IN PARTENZA
Ma il Sud è solo la punta più avanzata di un’organizzazione fallimentare dell’assistenza medica. Se si vuole considerare esagerata la cifra del rapporto RBT-Censis 2017 (12,2 milioni di persone che hanno smesso di curarsi perché non possono permettersi i costi del Sistema Sanitario Nazionale), per l’ISTAT “rinunciano a visite o accertamenti specialistici oltre 4 milioni di persone” in stato di indigenza.
“Il Sistema sanitario che l’Europa ci invidia” (Sergio Mattarella, messaggio a reti TV unificate, 3 aprile 2020), che dovrebbe dare “tutto a tutti”, non dà quasi niente. Soprattutto al Sud. Ma sottrae tra il 60 ed il 70% dei bilanci delle Regioni. Il bilancio della Campania – ha rilevato il Procuratore regionale della Corte dei Conti, Maurizio Stanco – è “largamente assorbito dalla spesa sanitaria, attestata a circa due terzi della spesa regionale” (Memoria del Procuratore regionale sul rendiconto della Regione Campania per l’esercizio finanziario 2019, 30.12.2020).
Per imprese, artigianato, cultura, istruzione, formazione, turismo, sport – settori nei quali la Regione dovrebbe programmare e dare supporto alla società – rimane a disposizione un terzo scarso del bilancio. Tutto il resto va ad alimentare un pozzo senza fondo che divora risorse sempre maggiori.
La pandemia di virus Covid 19 ha messo tutti di fronte alla realtà fallimentare del SSN. L’Italia – secondo dati della John Hopkins University – è al terzo posto nel mondo, dietro al Messico e all’Iran, nel rapporto tra casi accertati di sindrome Covid 19 e morti (Fanpage.it, 18.12.2020). Al di là dell’emergenza, certo imprevedibile, è evidente la scarsa qualità delle cure e l’impossibilità per i medici “di base” di andare oltre un rapporto superficiale e burocratico con i pazienti. La gestione delle vaccinazioni, lenta e macchinosa, ha confermato l’inefficienza strutturale di un sistema che non riesce ad assicurare l’ordinario e meno che mai ad affrontare lo straordinario.
Secondo la Fondazione GIMBE, dal 2009 al 2019 “il finanziamento pubblico alla Sanità è stato decurtato di oltre 37 miliardi” (Quotidianosanità.it, 16.9.2018). Hanno tagliato tutti i Governi: di centrodestra, di centrosinistra, di sinistra. Ma perché? Perché il SSN è un sistema insostenibile, che comporta costi inaccettabili, ed è insostenibile perché è una costruzione ideologica.
MIX DI SOCIALISMO E LIBERALISMO
La riforma da cui è nato l’attuale SSN risale al 1978 (legge 833/78). Era il triennio dei governi di “unità nazionale” (1976-79). Il partito comunista era nella maggioranza e la legge fu scritta da Giovanni Berlinguer, fratello di Enrico, segretario del PCI.
La riforma sanitaria – ha detto Chiara Giorgi, ricercatrice marxista dell’Università La Sapienza, alla presentazione del libro dell’Istituto Gramsci su Giovanni Berlinguer (“La salute è un diritto. Giovanni Berlinguer e la riforma del 1978”, a cura di Fabrizio Rufo, Ediesse, Roma 2020) – “doveva instaurare un rapporto tra medicina, società e politica, una concezione politica dell’ambito medico e sanitario” (Radio Radicale, 24.12.2020).
L’URSS c’era ancora, il PCI sarebbe stato sciolto solo 13 anni dopo, l’ossessione ideologica per la “programmazione” a tutti livelli dominava, così come il mito, anch’esso ideologico, della “gestione pubblica” (nel senso del controllo da parte dello Stato). E la riforma di Giovanni Berlinguer voleva costruire un “sistema sanitario pubblico, che garantisce tutto a tutti, finanziato dalla fiscalità generale”.
Nacque la nuova burocrazia sanitaria delle USSL (Unità socio-sanitarie locali), delle SAUB (Strutture amministrative unificate di base) che si impadronirono di tutte le competenze degli enti mutualistici, efficienti e di lunga tradizione, soppressi dalla riforma. Nei loro consigli di gestione entrarono i rappresentanti dei partiti, l’assistenza medica – che nei secoli era stata svolta dalla Chiesa, dagli Ordini professionali, dalla cooperative, dall’associazionismo e dai volontari, comunque dalla società, nelle sue articolazioni – veniva occupata dai partiti attraverso Stato e Regioni.
Il fallimento della riforma fu subito evidente. Così, nel 1992 fu approvata una riforma della riforma, con la legge 502/92, definita “una risposta all’insostenibilità del sistema di finanziamenti”. Allo statalismo socialista della riforma Berlinguer si rispose introducendo nel “Sistema Sanitario Nazionale” elementi di liberismo economico, una ricetta altrettanto sbagliata e contraddittoria. Le USSL furono trasformate in “Aziende sanitarie”, dotate di personalità giuridica ed in concorrenza tra loro, con una logica da impresa privata. Gli ospedali furono trasformati in Aziende ospedaliere, inserendo nell’assistenza medica i concetti inconciliabili del profitto e della valutazione dei costi e dei risultati. Alla burocrazia sanitaria si aggiunsero sedicenti “manager” (direttori generali) delle Aziende sanitarie locali, nominati dai presidenti di Regione. Funzionari senza alcuna formazione specifica, diventati i ras della Sanità “pubblica”, il cui vero compito è quello di organizzare il consenso e rastrellare voti per i referenti politici che li nominano.
L’attuale Sistema sanitario nazionale è un mostruoso compromesso tra volontà di statalizzazione e controllo politico dell’assistenza medica e necessità di razionalizzarne i costi con il profitto e la concorrenza, cardini dell’Economia di mercato.
RESTITUIRE L’ASSISTENZA MEDICA ALLA SOCIETÀ
L’alternativa a questo disastro tutto ideologico è restituire alla società le competenze che lo Stato ha espropriato, rispettando il principio di sussidiarietà, che è il fondamento della dottrina sociale cattolica. Secondo questo principio, Stato, Regioni, Comuni debbono intervenire per integrare (sussidiare) i corpi intermedi della società – famiglie, ordini professionali, associazioni di mestiere – nelle funzioni che da soli non riescono a svolgere, e non sostituirli. Una presenza dello Stato nell’assistenza medica dovrebbe esserci, ma in favore degli indigenti, per assicurare un’assistenza realmente gratuita.
L’assistenza medica dovrebbe essere un sistema plurale, nel quale hanno diritto di essere presenti più soggetti: Casse mutue di ordini professionali, associazioni di categoria, sindacati; associazioni di volontariato, la Chiesa, con gli ordini religiosi che vantano tradizioni di secoli nella cura degli infermi, lo Stato, i privati. Le pochissime casse mutue sopravvissute dalla riforma del 1978 oggi assistono in Italia circa 2 milioni di persone e sono quasi sempre in attivo. I rappresenti delle categorie rispondono della gestione agli iscritti e non ai politici.
“I tagli, i tagli !”, è l’unica spiegazione che i politici di tutti i partiti, rimbalzandosi l’accusa a vicenda, sanno dare per il fallimento del SSN. Nessuna analisi delle cause strutturali del fallimento, a conferma che le idee di fondo che guidano la politica in Italia sono molto più uniformi di quanto appare nel teatrino quotidiano di talk-show e tg, e che lo scontro non è sui principi ma solo sulla gestione del potere. Il SSN non è messo in discussione da nessun partito perché è una enorme macchina di distribuzione di favori, di spartizione di posti ed incarichi.
L’ultima carta per tenerlo in vita è il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) sanitario, una linea di credito attivata dall’Unione Europea dopo la pandemia di Covid-19, che indebiterebbe ancora di più il Paese e metterebbe ancora di più le sue scelte politiche nelle mani della Commissione UE. Finora, nessuno tra i 27 Paesi dell’UE ha voluto utilizzare questa polpetta avvelenata.
Il Sud, ingabbiato dentro un Sistema sanitario che non gli garantisce un’assistenza medica reale, mentre gli impone costi ancora più esosi, non può morire di Servizio Sanitario Nazionale. Servono politici formati con una cultura alternativa alle ideologie marxiste e liberali che hanno costruito il mostro inefficiente del SSN. (LN 154/20)