di Marina Carrese

 

Il 7 settembre 1860, Garibaldi entrava in Napoli alla testa delle sue truppe rivoluzionarie, per imporre il nuovo ordine istituzionale al popolo del Regno delle Due Sicilie.

Non si trattò della prima sollevazione armata popolare in assoluto, poichè già altri scontri si erano avuti in altre zone, ma la data rende significativa la vicenda di Montemiletto, perché indica che sin dall’inizio il nuovo regno d’Italia, non ancora ufficialmente nato, ebbe contro quel popolo in nome del quale pretendeva di legittimarsi agli occhi delle potenze europee.

Quello stesso giorno, a Montemiletto, nell’avellinese, ebbe luogo una sanguinosa azione di guerriglia antiunitaria, alla quale prese parte l’intera popolazione, contadini, artigiani, donne e briganti. Così pure il 21 ottobre, giorno del plebiscito, si ebbero sollevazioni popolari praticamente in tutte le province e, fino alla resa di Gaeta, una sorta di insurrezione permanente fiancheggiò le operazioni dell’Esercito borbonico, in tutta la parte settentrionale del Regno.

La guerriglia delle bande di briganti fu sicuramente una delle più dolorose spine nel fianco del regime piemontese, anche perché indicava la vitalità di un sentimento antiunitario forte e diffuso, radicato nel naturale istinto di difesa di chi veda aggredito ciò che è proprio: la casa, la famiglia, la terra.

Il brigantaggio, così marchiato dalle autorità piemontesi che non potevano certo riconoscere lo status di patrioti a chi gli si opponeva, pena il crollo delle false motivazioni che servivano a giustificare la conquista della Penisola, fu semplicemente la continuazione della guerra all’invasore, all’indomani della partenza del re Francesco II per l’esilio e dello scioglimento dell’Esercito napoletano, nella primavera del 1861.

La prima grande azione si svolse nel territorio di Melfi, dove le truppe formate da ex soldati borbonici e da contadini guidati da Carmine Donatelli Crocco, con una brillante manovra militare liberarono molti comuni della Basilicata e proclamarono governi provvisori in nome di Francesco II.

Fu il segnale d’inizio di una lunga stagione durante la quale la reazione armata si diffuse in tutto il territorio del Regno delle Due Sicilie, assumendo proporzioni preoccupanti per i piemontesi, ai quali le bande di briganti diedero filo da torcere per anni.

Mobili, numericamente rilevanti in alcuni casi, male armate e senza preparazione militare ma con una perfetta conoscenza dei luoghi, le bande di briganti – e delle tante brigantesse – furono numerose e dislocate in tutte le regioni: la banda del brigante Luigi Alonzi, detto Chiavone agiva ai confini con lo Stato Pontificio; Centrillo e Stramegna in Abruzzo; la banda di Cipriano La Gala combatteva nel casertano; Pilone era sul Vesuvio, alle porte di Napoli; Crocco, che aveva riunito diverse bande raccogliendo circa tremila uomini, controllava la Basilicata, l’Irpinia e parte della Puglia; il sergente Romano, ex sottufficiale dell’esercito borbonico operava nel barese. Solo per citare le maggiori.

Nella sua prima fase, dall’aprile 1861 alla metà del 1863, il brigantaggio realizzò il concreto tentativo di ripristinare con le armi il Regno delle Due Sicilie e fu animato da sinceri e generosi ideali legittimisti.

Spinti dagli stessi valori, si unirono alle bande molti ufficiali stranieri, alcuni dei quali avevano combattuto a Gaeta, come il catalano Borges che fu al fianco di Crocco; il conte prussiano Edwin Kalckreuth che collaborò con la banda di Chiavone, insieme all’austriaco Ludwig Richard Zimmermann, al belga Alfredo de Trazègnies, imparentato con il Re d’Olanda, e allo spagnolo Rafael Tristany.

Le tecniche adoperate furono tipiche della guerriglia, con veloci incursioni, attacchi improvvisi e rapide ritirate sui monti e nei boschi ben conosciuti e gli scontri avvenivano soprattutto nella buona stagione. I briganti ricevevano l’appoggio incondizionato delle popolazioni locali che provvedevano ai rifornimenti, alle via di fuga e ai rifugi, alla logistica e allo spionaggio, grazie alla rete di informazioni che passava attraverso le masserie, i campi coltivati, gli stretti sentieri di campagna. Dopo una vittoria, si intonava l’inno del Te Deum nella chiesa del paese liberato in nome di Francesco II.

Il nuovo Stato unitario, ben consapevole del significato della reazione legittimista armata e del potenziale pericolo che essa rappresentava, non si fece scrupolo di combatterla nel modo più violento e brutale. Sin dai primi scontri del 1861, Torino conferì poteri eccezionali al generale Cialdini per la repressione del fenomeno, e i primi provvedimenti previdero, tra l’altro, la fucilazione senza giudizio per chiunque fosse stato trovato armato.

La competenza su qualunque reato connesso a fatti di brigantaggio fu attribuita ai Tribunali Militari, chiunque fosse l’accusato, uomo, donna, bambino. In seguito, fu dichiarato “lo stato d’assedio in tutte le provincie meridionali”, con la chiusura di masserie, l’abbattimento di casolari e pagliai, la requisizione di bestiame e derrate alimentari dai paesi. Da quel momento, non si contarono più gli arresti arbitrari di familiari dei briganti e di semplici sospettati di avere contatti con una banda, come non si contarono le fucilazioni sul posto, senza giudizio, di contadini, operai, religiosi, artigiani, donne persino.

L’intenzione delle autorità piemontesi era di spargere il terrore tra le popolazioni, in modo da isolare i briganti e da favorire le delazioni. La repressione raggiunse punte di atrocità inconcepibili, come avvenne a Pontelandolfo e Casalduni, nel beneventano, il 14 agosto 1861.

I due paesi furono letteralmente messi a ferro e fuoco da un battaglione di 500 bersaglieri, agli ordini del colonnello Gaetano Negri, e decine di inermi contadini, soprattutto vecchi, donne e bambini, dopo ore di violenze, furono massacrati a fucilate o rinchiusi nella case in fiamme.

Non furono mai forniti dati ufficiali circa il numero delle vittime di questa strage, avvenuta per rappresaglia con l’accusa di favoreggiamento di una banda di 200 briganti che nei giorni precedenti aveva ucciso 40 soldati e fatto prigionieri 4 carabinieri e alcuni cittadini filosabaudi.

Il colonnello Negri, divenuto in seguito sindaco di Milano, in una lettera al padre che si commenta da sé, così la descrisse: «Napoli, agosto 1861 – Carissimo papà, le notizie delle provincie continuano a non essere molto liete. Probabilmente anche i giornali nostri avranno parlato degli orrori di Pontelandolfo. Gli abitanti di questo villaggio commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò nel paese, uccise quanti vi erano rimasti, saccheggiò tutte le case, e poi mise il fuoco al villaggio intero, che venne completamente distrutto. La stessa sorte toccò a Casalduni, i cui abitanti si erano uniti a quelli di Pontelandolfo.

Sembra che gli aizzatori della insurrezione di questi due paesi fossero i preti; in tutte le provincie, e specialmente nei villaggi della montagna, i preti ci odiano a morte, e, abusando infamemente della loro posizione, spingono gli abitanti al brigantaggio e alla rivolta. Se invece dei briganti che, per la massima parte, son mossi dalla miseria e dalla superstizione, si fucilassero tutti i curati (del Napoletano, ben inteso!), il castigo sarebbe più giustamente inflitto, e i risultati più sicuri e più pronti. Una vera bestia immonda. Se simili personaggi hanno fatto l’Italia una, oggi non dobbiamo piangere sulle due Italie: una ricca e prospera e l’altra povera. Questi personaggi hanno distrutto le ricchezze del Sud, hanno massacrato e fucilato gli uomini migliori, mentre hanno costretto all’emigrazione una grande moltitudine di Meridionali».

Cialdini annunciò l’esito dell’operazione al Ministro della guerra con un telegramma che diceva: “Ieri all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni”.

Altre stragi avvennero a Montefalcione, Scurcola Marsicana, Pizzoli, Isernia. Per la repressione del brigantaggio furono impiegati 120mila uomini, oltre le forze di polizia locale. La ferocia delle truppe piemontesi fu tale da impressionare persino l’imperatore Napoleone III che in un carteggio privato riferì: «Ho scritto a Torino per fare delle rimostranze…. Non solo la miseria e l’anarchia sono al loro apogeo, ma le più colpevoli indegnità sono all’ordine del giorno. Un generale, del quale ho dimenticato il nome, ha proibito che i contadini portassero con sé le provviste quando vanno al lavoro nei campi, ha deciso che sarà fucilato chiunque sarà trovato con un tozzo di pane addosso. I Borbone non hanno mai fatto cose di questo genere».

Il governo piemontese, invece, preferì promulgare la legge Pica (1863) che, oltre ai Tribunali Militari e alla fucilazione degli uomini in armi, prevedeva il domicilio coatto per “gli oziosi, i vagabondi, le persone sospette”, cioè per chiunque. Gli effetti non si fecero attendere e già nel settembre di quell’anno un migliaio di “sospetti” furono inviati al domicilio coatto in diverse isole; nell’anno successivo 249 briganti furono uccisi e 173 catturati.

La spaccatura tra la popolazione, sottoposta ad ogni genere di violenza, e le bande di briganti si era ormai prodotta e da quel momento si andò perdendo, lentamente, la motivazione legittimista, per dare spazio soltanto alla vendetta personale e alla dura lotta per la sopravvivenza, contro chi rappresenta un’autorità tanto odiosa. Molti dei briganti scampati alle fucilazioni, non potendo tornare ai propri paesi, scelsero la via dell’emigrazione, insieme alle migliaia di altri meridionali oppressi dalla miseria e dalla sfiducia.

I Comandi per la Repressione del Brigantaggio furono sciolti soltanto nel 1870 e non in tutte le province. La documentazione sulla repressione militare è depositata nell’Archivio di Stato ed è rimasta secretata fino al 2004; attualmente è accessibile agli studiosi soltanto in teoria, poiché tempi, giorni di consultazione e fasci disponibili sono stabiliti dalle autorità di volta in volta.

La storiografia postunitaria ha, in genere, accolto l’interpretazione ufficiale del fenomeno: le cause del brigantaggio sarebbero state la miseria del popolo delle Due Sicilie, l’arretratezza del territorio, la mancanza di strade, le rivendicazioni contadine non soddisfatte, la disoccupazione. A tali cause pregresse, si sarebbe aggiunto lo scioglimento delle truppe volontarie e dell’esercito borbonico, che aveva creato nuovi disoccupati e nuovi sbandati, e, infine, l’istigazione e il finanziamento del Governo borbonico in esilio. Nessuna delle relazioni delle Commissioni Parlamentari d’inchiesta sul brigantaggio e sullo stato delle province meridionali – come la farsesca relazione Massara – formulò mai l’ipotesi che potesse trattarsi di una reazione antiunitaria, né fece mai cenno al fatto che la miseria e la disoccupazione erano enormemente aumentate dopo l’invasione piemontese, con l’interruzione delle attività commerciali interne e con l’estero; con la chiusura di fabbriche, cantieri, stabilimenti che erano in pieno sviluppo fino al 1859; con l’annientamento della politica economica borbonica; con l’abbattimento della produzione agricola causata dalla guerra e dalla repressione; con l’abbandono delle comunicazioni marittime; con la scomparsa dei fondi per le opere pubbliche custoditi nelle Casse del Regno delle Due Sicilie; con l’aumento vertiginoso delle tasse; con la rapina del Tesoro del Regno.

Soltanto Massimo d’Azeglio ebbe il coraggio – o la sfrontatezza – di esprimere qualche dubbio, quando, un anno dopo il “trionfale” plebiscito, disse: “Noi siamo proceduti innanzi dicendo che i governi non consentiti dai popoli erano illegittimi, e con questa massima, che io credo e che crederò sempre vera, noi abbiamo inviato più sovrani a farsi benedire… A Napoli noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti, per contenere il regno sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, nessuno vuole saperne di noi. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio; ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore; e bisogna cangiare atti e principi. Bisogna sapere dai napoletani, un’altra volta per tutte, se ci vogliono, sì o no”. Il governo italiano preferì non porre la domanda.

 

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