Che Sud avremmo avuto se i Borbone avessero governato magari fino ad oggi?
Quale cultura e quale economia avrebbe avuto il Regno delle Due Sicilie senza l’invasione piemontese? Se riflettiamo magari sui fatti più significativi degli ultimi anni e degli ultimi mesi di vita del Regno delle Due Sicilie, possiamo capire quali prospettive avrebbe avuto il Sud in uno stato ancora autonomo. E’ opportuno prima di tutto indicare alcune linee di sviluppo dell’economia meridionale pre-unitaria.
Una delle risorse più ricche di prospettive era, e sarebbe stata, quella del mare: i Borbone dimostrarono di aver capito concretamente l’importanza commerciale e strategica del Mediterraneo. Nel 1856 nella sola capitale c’erano 25 compagnie di navigazione; la prima, la più poderosa in Italia, era la Società di navigazione delle Due Sicilie: le navi napoletane toccavano tutti i porti del Mediterraneo, attraversavano l’Atlantico arrivando fino a New York, Boston, fino al Brasile, alla Malesia o all’Oceania. Tra il 1839 e il 1855 la flotta mercantile aveva esportato merci per circa 89 milioni di ducati. Nel giugno del 1854 per la prima volta una nave italiana a vapore, dopo 26 giorni di navigazione, arrivò a New York: era il piroscafo Sicilia, voluto da Ferdinando II «per il tragitto periodico tra i Reali Dominii e le Americhe […] spezialmente pel traffico di quelle derrate che in lungo viaggio soggette andrebbero a deteriorarsi». Alcuni anni dopo l’unità d’Italia, lungo la stessa rotta, quelle “derrate” saranno tragicamente sostituite da milioni di meridionali costretti ad emigrare.
Che tassi di disoccupazione avremmo conosciuto se le industrie avessero continuato a svilupparsi senza conquiste settentrionali?
A Pietrarsa avevamo la più grande fabbrica metalmeccanica con 1050 operai mentre l’Ansaldo a Genova ne occupava solo 480 e la FIAT non era ancora nata. E se parlare di agricoltura o di pastifici può sembrare scontato, sembrano meno scontati gli oltre 2000 addetti complessivi delle ferriere di Mongiana in Calabria. E sembra meno scontata la produzione di locomotive, rotaie, gru o motori. Solo nel settore tessile si contavano 1200 fabbriche e 48.000 operai nel Mezzogiorno continentale. L’antica tradizione dell’industria conciaria regalava al Regno un altro primato: la produzione di 700.000 dozzine di paia di guanti (mentre nel resto dell’Italia se ne producevano solo 100.000).
E che prospettive avrebbe avuto la nostra industria alimentare, una delle nostre vocazioni industriali, con gli oltre 300 pastifici che esportavano in Italia, negli Stati Uniti, in Russia, in Germania, in Austria, in Svezia, in Tunisia, in Turchia o in Brasile?
Chiusero quasi tutte queste fabbriche perché fummo conquistati ed era normale che i conquistatori facessero di tutto per chiuderle e per farci diventare una loro colonia. Ed è normale che oggi anche pasta e pomodori vengano dal Nord. Così come è normale per un paese colonizzato distruggere uliveti, mucche o granai, vittime degli interessi “superiori” dell’Europa o delle multinazionali.
Chiusero quelle fabbriche “borboniche” perché delle 600 locomotive occorrenti alle ferrovie italiane solo 70 furono ordinate a Pietrarsa. E agli operai della nostra antica fabbrica voluta da Ferdinando II «per affrancarci dal braccio straniero», quando si riunirono nel cortile per protestare contro i licenziamenti,spararono con le baionette: quattro di loro furono ammazzati e sono stati dimenticati anche se sono stati i primi martiri della storia operaia.
Chiusero quelle fabbriche, vittime delle 34 nuove tasse del governo di Torino o schiacciate dalle politiche prima liberistiche e poi protezionistiche funzionali solo allo sviluppo delle industrie dell’Italia del Nord.
Che Sud ci sarebbe stato senza quell’unificazione sbagliata?
Un Sud sicuramente con una sua classe dirigente degna, un Sud dove magari non tutto sarebbe stato perfetto ma con una precisa identità culturale, religiosa, politica ed economica. Un Sud che in una confederazione di Stati italiani sarebbe stato rispettato e avrebbe avuto il ruolo che gli spettava, un Sud né oltraggiato né subalterno ma rispettato e protagonista, anche in Europa.