Dalla Vandea alla Russia: il percorso della Rivoluzione
Il 25 settembre 1993, a Le Lucs sur Boulogne, dove, due secoli prima, una Colonna Infernale aveva massacrato l’intera popolazione di 563 persone, tra cui 109 bambini con meno di 7 anni, 33 con meno di 2 anni e due di appena 15 giorni, è stato inaugurato il suggestivo monumento Mémorial de Vendée. Il presidente del Consiglio della Vandea, il marchese Philippe de Villiers, volle che la cerimonia avesse per protagonista Aleksandr Solzenicyn, il grande scrittore dissidente russo, figura emblematica della resistenza contro la Rivoluzione e simbolo vivente delle vittime del furore rivoluzionario, per la lunghissima detenzione nei Gulag sovietici.
In quella storica occasione, di fronte a 30.000 commossi spettatori, Solzenicyn pronunciò un discorso che tracciava con semplice lucidità un filo rosso tra le rivoluzioni francese e russa.
Il testo del discorso, pubblicato dal quotidiano Le Monde, è riportato di seguito nella traduzione redazionale e nell’originale francese.
«Signor Presidente del Consiglio generale della Vandea, cari Vandeani,
due terzi di secolo fa, quand’ero bambino leggevo già con ammirazione nei libri il racconto che rievocava l’insorgenza della Vandea, così coraggiosa, così disperata. Ma non avrei mai potuto immaginare, neppure in sogno, che in vecchiaia avrei avuto l’onore di inaugurare il monumento in onore degli eroi e delle vittime di quel sollevamento.
Sono passati venti decenni, decenni diversi a seconda dei diversi paesi, e, non solo in Francia ma anche altrove, l’insorgenza vandeana e la sua sanguinosa repressione hanno ricevuto costantemente nuova luce. Infatti gli avvenimenti storici non sono mai compresi pienamente nell’incandescenza delle passioni che li accompagnano, ma a buona distanza, una volta raffreddate dal tempo.
Per molto tempo ci si è rifiutati di ascoltare e di accettare quanto era stato gridato dalla bocca di coloro che morivano, che venivano bruciati vivi, dei contadini di una terra laboriosa, per i quali la Rivoluzione sembrava fosse stata fatta, ma che la stessa Rivoluzione oppresse e umiliò fino al limite estremo.
Ebbene sì, proprio questi contadini si ribellarono contro di essa!
Ogni rivoluzione scatena negli uomini gli istinti della barbarie più elementare, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio e i contemporanei l’avevano compreso troppo bene. Essi pagarono un tributo decisamente pesante alla psicosi generale, quando il fatto di comportarsi da uomini politicamente moderati, o anche soltanto di sembrarlo, veniva già considerato un crimine.
È il XX secolo che ha offuscato notevolmente, agli occhi dell’umanità, l’aureola romantica che circondava la rivoluzione nel XVIII secolo.
Di mezzo secolo in mezzo secolo gli uomini hanno finito per convincersi, partendo dalle loro stesse disgrazie, del fatto che le rivoluzioni distruggono il carattere organico della società, che danneggiano il corso naturale della vita, che annientano i migliori elementi della popolazione dando campo libero ai peggiori. Nessuna rivoluzione può arricchire un paese, al massimo qualche furbo senza scrupoli; sono causa di innumerevoli morti, di un vasto impo¬verimento, e, nei casi più gravi, di un degrado duraturo della popolazione.
Il termine stesso «rivoluzione» — dal latino revolvo — significa rotolare indietro, ritornare, riprovare, riaccendere. Nel migliore dei casi mettere sottosopra. In breve, una sequenza di definizioni poco invidiabili. Ai giorni nostri, se si attribuisce a qualche rivoluzione la qualifica di «grande», lo si fa con circospezione e molto spesso con molta amarezza.
Ormai comprendiamo sempre meglio che l’effetto sociale che desideriamo tanto ardentemente può essere ottenuto attraverso uno sviluppo evolutivo normale, con un numero infinitamente minore di perdite, senza comportamenti selvaggi generalizzati. Bisogna saper migliorare con pazienza quanto ogni giorno ci offre. Sarebbe davvero vano sperare che la rivoluzione possa rigenerare la natura umana. È ciò che la vostra Rivoluzione, e in modo assolutamente particolare la nostra, la rivoluzione russa, avevano fortemente sperato.
La Rivoluzione francese si è svolta nel nome di uno slogan intrinsecamente contraddittorio, e irrealizzabile: Libertà, uguaglianza, fraternità. Ma, nella vita sociale, libertà e uguaglianza tendono a escludersi reciprocamente, sono antagoniste! La libertà distrugge l’uguaglianza sociale, è proprio questa una delle funzioni della libertà, mentre l’uguaglianza limita la libertà, perché diversamente non vi si potrebbe giungere. Quanto alla fraternità, non è della loro famiglia, è un’audace aggiunta allo slogan e non sono delle disposizioni sociali che possono costruire la vera fraternità. Essa è di ordine spirituale.
Per di più, a questo slogan ternario veniva aggiunto con tono minaccioso «o la morte», il che ne distruggeva ogni significato. Mai, a nessun paese, potrei augurare una «grande rivoluzione». Se la Rivoluzione del XVIII secolo non ha causato la rovina della Francia è solo perché ha avuto luogo Termidoro.
La rivoluzione russa non ha conosciuto un Termidoro che abbia saputo arrestarla, e, senza deviare, ha portato il nostro popolo fino in fondo, fino al gorgo, fino all’abisso della perdizione. Mi spiace che non vi siano qui oratori che possano aggiungere quanto l’esperienza ha insegnato loro nelle profondità della Cina, della Cambogia, del Vietnam, a dirci che prezzo hanno dovuto pagare, loro, per la rivoluzione.
L’esperienza della Rivoluzione francese avrebbe dovuto essere sufficiente perché i nostri organizzatori razionalisti della felicità del popolo ne traessero lezioni. Ma no! In Russia tutto si è svolto in un modo ancora peggiore, e in una scala senza confronti.
Molti procedimenti crudeli della Rivo¬luzione francese sono stati docilmente applicati sul corpo della Russia dai comunisti leninisti e dai socialisti internazionalisti. Solo il loro grado di organizzazione e il loro carattere sistematico hanno ampiamente superato quelli dei giacobini.
Non abbiamo avuto un Termidoro, ma — e possiamo esser fieri nella nostra anima e nella nostra coscienza — abbiamo avuto la nostra Vandea. E più d’una. Sono i grandi sollevamenti contadini, del 1920-1921.
Ricorderò soltanto un episodio ben noto: le folle di contadini armate di bastoni e di forche che hanno marciato su Tambov, al suono delle campane delle chiese del circondario, per essere falciate dalle mitragliatrici. L’insorgenza di Tambov è durata undici mesi, benché i comunisti per reprimerla abbiano usato carri armati, treni blindati, aerei, benché abbiano preso in ostaggio le famiglie dei rivoltosi e benché fossero sul punto di usare gas tossici. Abbiamo avuto anche una resistenza feroce al boscevismo da parte dei Cosacchi dell’Ural, del Don, soffocata in torrenti di sangue. Un autentico genocidio.
Inaugurando oggi il Monumento della vostra eroica Vandea, la mia vista si sdoppia: vedo con la mente i monumenti che verranno eretti un giorno, in Russia, testimoni della nostra resistenza russa al dilagare delle orde comuniste. Abbiamo attraversato insieme a voi il XX secolo, un secolo di terrore dall’inizio alla fine, orribile coronamento del progresso tanto sognato nel secolo diciottesimo.
Oggi, penso, ci saranno sempre più Francesi a capire meglio, a valutare meglio, a guardare con fierezza nella loro memoria la resistenza e il sacrificio della Vandea.
Aleksandr Solzenicyn
«M. le président du Conseil général de la Vendée, chers Vendéens,
Il y a deux tiers de siècle, l’enfant que j’étais lisait déjà avec admiration dans les livres les récits évoquant le soulèvement de la Vendée, si courageux, si désespéré. Mais jamais je n’aurais pu imaginer, fût-ce en rêve, que, sur mes vieux jours, j’aurais l’honneur inaugurer le monument en l’honneur des héros des victimes de ce soulèvement.
Vingt décennies se sont écoulées depuis: des décennies diverses selon les divers pays. Et non seulement en France, mais aussi ailleurs, le soulèvement vendéen et sa répression sanglante ont reçu des éclairages constamment renouvelés. Car les événements historiques ne sont jamais compris pleinement dans l’incandescence des passions qui les accompagnent, mais à bonne distance, une fois refroidis par le temps.
Longtemps, on a refusé d’entendre et d’accepter ce qui avait été crié par la bouche de ceux qui périssaient, de ceux que l’on brûlait vifs, des paysans d’une contrée laborieuse pour lesquels la Révolution semblait avoir été faite et que cette même révolution opprima et humilia jusqu’à la dernière extrêmité.
Eh bien oui, ces paysans se révoltèrent contre la Révolution. C’est que toute révolution déchaîne chez les hommes, les instincts de la plus élémentaire barbarie, les forces opaques de l’envie, de la rapacité et de la haine, cela, les contemporains l’avaient trop bien perçu. Ils payèrent un lourd tribut à la psychose générale lorsque fait de se comporter en homme politiquement modéré – ou même seulement de le paraître – passait déjà pour un crime.
C’est le XXe siècle qui a considérablement terni, aux yeux de l’humanité, l’auréole romantique qui entourait la révolution au XVIIIe. De demi-siècles en siècles, les hommes ont fini par se convaincre, à partir de leur propre malheur, de que les révolutions détruisent le caractère organique de la société, qu’elles ruinent le cours naturel de la vie, qu’elles annihilent les meilleurs éléments de la population, en donnant libre champ aux pires. Aucune révolution ne peut enrichir un pays, tout juste quelques débrouillards sans scrupules, sont causes de mort innombrables, d’une paupérisation étendue et, dans les cas les plus graves, d’une dégradation durable de la population.
Le mot révolution lui-même, du latin revolvere, signifie rouler en arrière, revenir, éprouver à nouveau, rallumer. Dans le meilleur des cas, mettre sens dessus dessous. Bref, une kyrielle de significations peu enviables. De nos jours, si de par le monde on accole au mot révolution l’épithète de «grande», on ne le fait plus qu’avec circonspection et, bien souvent, avec beaucoup d’amertume.
Désormais, nous comprenons toujours mieux que l’effet social que nous désirons si ardemment peut être obtenu par le biais d’un développement évolutif normal, avec infiniment moins de pertes, sans sauvagerie généralisée. II faut savoir améliorer avec patience ce que nous offre chaque aujourd’hui. Il serait bien vain d’espérer que la révolution puisse régénérer la nature humaine. C’est ce que votre révolution, et plus particulièrement la nôtre, la révolution russe, avaient tellement espéré.
La Révolution française s’est déroulée au nom d’un slogan intrinsèquement contradictoire et irréalisable : liberté, égalité, fraternité. Mais dans la vie sociale, liberté et égalité tendent à s’exclure mutuellement, sont antagoniques l’une de l’autre! La liberté détruit l’égalité sociale – c’est même là un des rôles de la liberté -, tandis que l’égalité restreint la liberté, car, autrement, on ne saurait y atteindre. Quant à la fraternité, elle n’est pas de leur famille. Ce n’est qu’un aventureux ajout au slogan et ce ne sont pas des dispositions sociales qui peuvent faire la véritable fraternité. Elle est d’ordre spirituel.
Au surplus, à ce slogan ternaire, on ajoutait sur le ton de la menace : «ou la mort», ce qui en détruisait toute la signification. Jamais, à aucun pays, je ne pourrais souhaiter de grande révolution. Si la révolution du XVIIIe siècle n’a pas entraîné la ruine de la France, c’est uniquement parce qu’eut lieu Thermidor.
La révolution russe, elle, n’a pas connu de Thermidor qui ait su l’arrêter. Elle a entraîné notre peuple jusqu’au bout, jusqu’au gouffre, jusqu’à l’abîme de la perdition. Je regrette qu’il n’y ait pas ici d’orateurs qui puissent ajouter ce que l’expérience leur a appris, au fin fond de la Chine, du Cambodge, du Vietnam, nous dire quel prix ils ont payé, eux, pour la révolution. L’expérience de la Révolution française aurait dû suffire pour que nos organisateurs rationalistes du bonheur du peuple en tirent les leçons. Mais non ! En Russie, tout s’est déroulé d’une façon pire encore et à une échelle incomparable.
De nombreux procédés cruels de la Révolution française ont été docilement appliqués sur le corps de la Russie par les communistes léniniens et par les socialistes internationalistes. Seul leur degré d’organisation et leur caractère systématique ont largement dépassé ceux des jacobins.
Nous n’avons pas eu de Thermidor, mais – et nous pouvons en être fiers, en notre âme et conscience – nous avons eu notre Vendée. Et même plus d’une. Ce sont les grands soulèvements paysans, en 1920-21. J’évoquerai seulement un épisode bien connu: ces foules de paysans, armés de bâtons et de fourches, qui ont marché sur Tanbov, au son des cloches des églises avoisinantes, pour être fauchés par des mitrailleuses.
Le soulèvement de Tanbov s’est maintenu pendant onze mois, bien que les communistes, en le réprimant, aient employé des chars d’assaut, des trains blindés, des avions, aient pris en otages les familles des révoltés et aient été à deux doigts d’utiliser des gaz toxiques. Nous avons connu aussi une résistance farouche au bolchévisme chez les Cosaques de l’Oural, du Don, étouffés dans les torrents de sang. Un véritable génocide.
En inaugurant aujourd’hui le mémorial de votre héroïque Vendée, ma vue se dédouble. Je vois en pensée les monuments qui vont être érigés un jour en Russie, témoins de notre résistance russe aux déferlements de la horde communiste. Nous avons traversé ensemble avec vous le XXe siècle. De part en part un siècle de terreur, effroyable couronnement de ce progrès auquel on avait tant rêvé au XVIIIe siècle. Aujourd’hui, je le pense, les Français seront de plus en plus nombreux à mieux comprendre, à mieux estimer, à garder avec fierté dans leur mémoire la résistance et le sacrifice de la Vendée».
Aleksandr Solzenicyn