(Lettera Napoletana) – Ma veramente il Sud deve guardare alla dichiarazione di “indipendenza” dalla Spagna del governo regionale della Catalogna come ad un modello e deve preoccuparsi invece per i referendum “autonomisti” di Veneto e Lombardia ?
Cominciamo dalla Catalogna. La sua storia, a partire dal XII secolo, si è sempre identificata con le Spagne una entità politica e culturale plurale, che comprendeva nazionalità e Regni diversi, compreso, per oltre due secoli, il Regno di Napoli.
Più nazionalità (ci sono la Galizia, l’Andalusia, i Paesi Baschi), più Regni, più culture, uniti dalla religione cattolica, e da una identità cementata nella Reconquista, (722-1492) la lotta contro l’Islam, durata oltre 700 anni.
Se il Sud attuale dell’Italia, a partire dal X secolo e dal Regno normanno-svevo, al quale si richiamavano orgogliosamente i Re Borbone (“la Monarchia di Re Ruggero”) ha vissuto un’esperienza politico-amministrativa unitaria, sostenuta da una identità culturale omogenea e si è anche organizzato in Stato, la Catalogna, nata da alcune Contee confederate con il Regno di Aragona (che ha dato vita alla Spagna insieme al Regno di Castiglia) non ha mai avuto un proprio Re e la sua storia si intreccia da secoli con quella delle Spagne.
I popoli sono tradizioni, e la Tradizione catalana è quella delle Spagne. Ma su che cosa, allora, gli “indipendentisti” catalani fondano la loro richiesta di “indipendenza” ? Sul famigerato principio di nazionalità e sul principio di autodeterminazione. Il primo fu teorizzato dal liberale Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888), emigrato dall’Irpinia a Torino, in odio ai Borbone, dove fu deputato del Piemonte e poi del Regno d’Italia.
Secondo questo principio, ereditato dal giacobinismo e della Rivoluzione francese, la Nazione non è eredità di cultura, ma un’entità ideologica alla quale si “sceglie” di appartenere con un atto di volontà. Al “principio di nazionalità” si rifacevano i “patrioti” del cosiddetto Risorgimento. Cesare Battisti (1875-1916) era nato nell’Impero austro-ungarico, ma per la sua affiliazione massonica e l’adesione all’ideologia socialista vagheggiava un’ “Italia” che non era mai esistita come Nazione.
Il principio di autodeterminazione, invocato dai catalanisti, ha la stessa matrice ideologica e filosoficamente volontaristica del principio di nazionalità. È una creazione del liberalismo che risale a dopo la Prima guerra mondiale. Secondo i suoi stessi teorici, peraltro, non si potrebbe applicare alla Catalogna, perché il principio non ha effetti retroattivi e non vale all’interno degli Stati. Ma non è questo che conta, come non conta il referendum-farsa del 1° ottobre, dove ha votato, senza garanzie e controlli seri, solo una minoranza dei residenti. Ma le Nazioni non nascono con i referendum né con i plebisciti, come quelli fabbricati a tavolino che dettero una legittimità formale all’Italia unificata dalle armi piemontesi con l’aiuto di Inghilterra e Francia.
Chi invoca dunque il principio di autoderminazione come strada da praticare per l’indipendenza delle Due Sicilie, sull’esempio degli “indipendentisti” catalani, dovrebbe poi ammettere che i siciliani o gli abruzzesi si dichiarassero fuori, sulla base della “autodeterminazione”, e così gli altri popoli e nazionalità dell’antico Regno delle Due Sicilie, anche se la loro storia e la loro cultura da secoli si intreccia con l’attuale Sud d’Italia.
Quanto ai referendum autonomisti in Veneto ed in Lombardia alcune considerazioni. Il Veneto ha una lunga e gloriosa storia di autonomia, con la Repubblica di Venezia, durata oltre 500 anni, alla quale misero fine i rivoluzionari francesi nel 1797. Con la sconfitta di Napoleone, l’Impero Austro-Ungarico, restituì al Lombardo-Veneto la dignità di Regno per 60 anni poi, con la sconfitta dell’Impero, il Veneto fu ceduto da Napoleone III al Piemonte (1866). Un plebiscito-farsa, uguale a quello svoltosi nel Regno delle Due Sicilie, (solo il 30% della popolazione poté votare) sanzionò l’annessione del Veneto al Piemonte.
La Lombardia nel 1859, in seguito alla sconfitta dell’Impero Austro-Ungarico, passò alla Francia. Napoleone III la girò al Piemonte. Anche qui fu utilizzato come legittimazione formale un plebiscito che si era svolto nel 1848 ed aveva dato come risultato il 99,8 % di favorevoli alla fusione della Lombardia con il Regno di Sardegna.
Veneto e Lombardia sono due facce del cosiddetto Risorgimento, che ha schiacciato i popoli e le nazioni dell’Italia pre-unitaria sotto l’oppressione della burocrazia piemontese, erede del giacobinismo e della Rivoluzione francese.
Per il Sud, non si tratta dunque di contestare il loro diritto a versare meno tasse ad uno Stato centrale esoso ed inefficiente, che prende dalle nostre tasche per alimentare se stesso, ma di darsi una classe politica che sia in grado di rivendicare autonomia, ed anche indipendenza, per le Due Sicilie.
Il federalismo fiscale che, anche per i suoi sostenitori, prevedeva un fondo di perequazione per le Regioni meridionali (saccheggiate, aggiungiamo noi, con l’unificazione) permetterebbe di spendere sui nostri territori gran parte delle risorse prodotte.
Per fare solo un esempio, la Reggia borbonica di Caserta, uno dei monumenti più visitati d’Italia, incassava già nel 2008 (ora la cifra è sensibilmente aumentata) – secondo dati dell’ex Sovrintendente ai beni ambientali ed architettonici, Giovanna Petrenga – circa 2 milioni di euro all’anno, ma ne vede tornare solo 3 o 400 mila attraverso il Ministero per i Beni culturali (Ansa, 21.9. 2008).
Contestare la richiesta di autonomia dei Veneti e dei Lombardi, che ha radici storiche e culturali consolidate, significa difendere lo Stato unitario centralizzato e l’Italia del cosiddetto Risorgimento.
È quanto fa la gran parte della classe politica meridionale, un ceto politico subalterno e colluso con i partiti nazionali, che dalla gestione dei trasferimenti statali e dall’intermediazione delle risorse pubbliche trae il proprio potere. (LN117/17)