(Lettera Napoletana) Ma chi sono i “meridionalisti” ? La proposta di istituire una “Giornata per la Memoria” in ricordo delle vittime dell’unificazione-invasione italiana, avanzata da alcuni parlamentari e consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle, dovrebbe chiarire una volta di più le idee su quanti si definiscono tali, e diventa uno spartiacque.
La proposta è stata presentata a marzo 2017 nei Consigli regionali di Campania, Puglia, Molise, Basilicata e Abruzzo. In Basilicata, è stata approvata all’unanimità, senza che la cosa provocasse scalpore.
Ma quando è stata votata, il 4 luglio, nel Consiglio regionale della Puglia, i mass-media si sono finalmente accorti dell’accaduto ed è scoppiata la polemica.
Anche lo schieramento delle forze politiche al momento del voto è stato significativo. Contro l’istituzione della Giornata della Memoria per le vittime del Sud hanno votato il consigliere regionale Giovanni D’Arcangelo Liviano, eletto nella lista del presidente della Giunta regionale pugliese Michele Emiliano, e Cosimo Borrraccini, consigliere di “Noi a sinistra per la Puglia”, espressione di Sinistra italiana, formazione politica nata da Sel (Sinistra Ecologia e Libertà) del pugliese Niki Vendola.
Lui, Emiliano, dopo aver annunciato, appena eletto, il suo “no a battaglie neoborboniche” (Il Mattino, 3.6.2015), dopo ironie sullo stesso argomento e dopo varie oscillazioni, ha votato a favore, annusando l’aria che tira.
A Napoli, “Il Mattino”, “Il Corriere del Mezzogiorno”, e l’edizione locale di “la Repubblica” hanno ospitato gli indignati interventi di docenti universitari, economisti, giornalisti, l’establishment dello storiograficamente e divulgativamente corretto, ma sono stati costretti a lasciare almeno lo spazio di una replica a chi giudica positivamente la Giornata del ricordo.
Il prof. Gennaro De Crescenzo, presidente del Movimento Neoborbonico, ha replicato con efficacia alla saccenza accademica, al conformismo culturale ed alla disinformazione, pur negli spazi limitati che è riuscito a strappare.
Ma quali sono state le reazioni all’iniziativa dei “meridionalisti”? Adriano Giannola, presidente dello Svimez , il carrozzone pubblico incaricato delle analisi e dei progetti “sullo sviluppo del Sud” intervistato da “Il Mattino” (10.8.2017) definisce l’idea della Giornata del ricordo “un corto circuito che viene da lontano (…) E che oggi si manifesta nel modo più deteriore” (sic) e definisce “celebrazioni di nulla” le iniziative in ricordo delle vittime dell’unificazione.
Giannola, è il capofila di quei “meridionalisti” che sulla Cassa per il Mezzogiorno hanno costruito la propria carriera professionale, lucrando importanti incarichi nelle istituzioni economiche, nelle Fondazioni e nei Centri studi del Sud. Dal 1995 al 1997 (l’anno della svendita), è stato componente del cda del Banco di Napoli. Poi, per 13 anni (2000-2013), è stato presidente della Fondazione Banco di Napoli. Tra il 2012 e il 2014 è stato componente del direttivo di SRM (Studi e ricerche Mezzogiorno), centro studi del gruppo bancario piemontese-lombardo Intesa-Sanpaolo. Molti altri gli incarichi “minori”: componente del cda della Fondazione per il Sud (pensata da imprese e Fondazioni del Nord, come la Compagnia di Sanpaolo), componente del famigerato CTS (Comitato tecnico scientifico) di Bassolino, al tempo della sua presidenza della Giunta regionale della Campania, i cui componenti percepivano un gettone di presenza anche senza riunirsi, componente del cda della Banca Popolare di Puglia e Basilicata, presidente emerito della Banca del Sud, presidente della Fondazione di Comunità Centro Storico di Napoli. Nel 2011, Giannola ha assunto anche la presidenza del Teatro Mercadante di Napoli, nominato dal sindaco Luigi De Magistris.
Dopo aver ribaltato i propri riferimenti politici, ha ceduto la poltrona, dimettendosi, solo al termine di una strenua resistenza.
Il presidente dello Svimez fa da cane da guardia alla storiografia risorgimentalista: «priva di significato e persino controproducente è la piega presa da questo meridionalismo recriminatorio che veste i panni di un improbabile revival neoborbonico (…) che senso ha allora scoprire da noi che c’è stata una guerra civile ? I briganti non erano soltanto dei briganti. E allora? Dopo vent’anni di stupidità assoluta in cui il localismo l’ha fatta da padrone – questo il vero dramma – stiamo a discutere di cosa, di quali idiozie? Che cosa pensiamo di rivendicare?».
Illuminante è l’indicazione di Giannola sulle fonti da utilizzare per una rilettura della Storia d’Italia:
«Basta prendere Cavour – prosegue nell’intervista a “Il Mattino”, citando una non meglio specificata “nipote” del politico piemontese – Cavour muore al momento dell’unità e muore raccomandandosi al re – così racconta la nipote – perché l’Italia del Settentrione è fatta, ma “mancano i napoletani” (…)
E si raccomanda al proprio al re, che lo va a trovare nelle sue ultime ore: “Niente stato d’assedio, nessun mezzo di governo assoluto. Tutti sono capaci di governare con lo stato d’assedio. Io li governerò con la libertà e mostrerò ciò che possono fare di quel bel Paese dieci anni di libertà”».
Al “meridionalista” Giannola – anche ammettendo che il racconto della nipote di Cavour sia vero – sfugge totalmente che Cavour era stato il regista dall’invasione-annessione del Sud, condotta con la corruzione, la manipolazione delle coscienze, la doppiezza diplomatica, l’aggressione militare. E che se le sue “raccomandazioni” (sempre ammesso che siano vere) sullo stato d’assedio e la dittatura furono disattese, i motivi sono da cercarsi nella matrice ideologica del cosiddetto Risorgimento e nell’uso indispensabile della violenza da parte della esigua minoranza liberale, alla quale Cavour apparteneva, per imporre alle popolazioni del Regno delle Due Sicilie (ma anche al Granducato di Toscana, al Ducato di Parma e Piacenza, allo Stato Pontificio, al Ducato di Modena e Reggio, al Lombardo-Veneto) il progetto unitario.
Giannola è in buona compagnia. Per Alessandro Laterza, titolare della omonima casa editrice di Bari la cui nascita è legata a Benedetto Croce, e vicepresidente di Confindustria con delega per il Mezzogiorno, «parlare di vittime meridionali dell’unità d’Italia, criminalizza la fondazione della nostra nazione e riscatta il brigantaggio: revisionismo livoroso e miope» (Corriere della Sera, 5.8.2017).
Con Giannola e Laterza si schiera un altro campione del “meridionalismo” ufficiale, l’economista Gianfranco Viesti. «Mi sembra davvero un’idea infelice, presa con troppa leggerezza – dice commentando il voto del Consiglio regionale della Puglia – forse stimolata dall’approssimarsi di un turno elettorale» (Il Mattino, 8. 8.2017).
Viesti è componente del Comitato scientifico di SRM (Studi e ricerche Mezzogiorno), Centro Studi del gruppo bancario Intesa Sanpaolo. Ex presidente della Fiera del Levante di Bari, ex assessore regionale e presidente dell’Agenzia regionale della Puglia per l’innovazione e la tecnologia. Vicino al Pd, era il candidato di Piero Fassino alla guida della Regione Puglia nel 2010, ma il progetto non si realizzò. Sempre silenzioso sulle vicende del Banco di Napoli (dalla svendita alle accuse per la mancata azione di responsabilità verso il Ministero del Tesoro all’ex presidente della Fondazione Banco Napoli Adriano Giannola), a novembre 2010 Viesti inaugurava a Napoli la filiale di Banca Prossima, la Banca di Intesa Sanpaolo dedicata al Terzo Settore.
«Non posso escludere che, specie nei primi decenni unitari, si sia proposta una lettura parziale degli eventi – dice a “Il Mattino” – anche nello sforzo di costituzione di un’identità nazionale in un paese in cui, per dirne una, erano ben pochi gli italiani capaci di capirsi parlando una lingua comune (vero, ma questo sottolinea la violenza anche culturale dell’unificazione, n.d.r.) (…) ma la Giornata della memoria prende una posizione assai controversa. Tra l’altro – conclude Viesti – vi erano meridionali borbonici; ma tanti, tanti anti-borbonici. Per fortuna.».
Si potrebbe continuare. I più ostili all’idea di ricordare il costo umano dell’unificazione italiana per l’attuale Sud sono proprio i meridionalisti ufficiali, quelli del giro Svimez, della ex Cassa per il Mezzogiorno, quelli che occupano le poltrone delle istituzioni che dovrebbero lavorare allo “ lo sviluppo del Sud”, quelli sempre interpellati dai giornali per sdegnate analisi sul sottosviluppo economico del Sud.
Lo spartiacque tra questi meridionalisti funzionali all’attuale Italia duale, che vede il Centro-Nord destinato ad accogliere i centri direzionali dell’economia, della politica e della cultura, e il Sud come mercato di sbocco dei prodotti del Nord e dei Paesi forti dell’Ue, relegato al ruolo di giardino delle vacanze dei più ricchi europei e destinato a vivere di assistenza, è il giudizio sull’unificazione.
Per loro, come per i fondatori dello Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’impresa nel Mezzogiorno) progettato dall’IRI (il socialista milanese Rodolfo Morandi, l’ingegnere vicentino Giuseppe Cenzato, inviato a Napoli dalla sua impresa, il democristiano di sinistra Pasquale Saraceno, assunto all’IRI nel 1933 e divenuto collaboratore del ministro del bilancio e dell’Economia Ezio Vanoni, nato in provincia di Sondrio), l’unificazione dell’Italia è un dato di fatto positivo e il prezzo pagato dall’attuale Sud in termini di vite umane, di arretramento sociale ed economico è minimo o inesistente. «Stiamo attenti a dire che il Mezzogiorno ha pagato economicamente e socialmente», afferma Giannola ( Il Mattino , 10.8.2017).
L’origine del sottosviluppo economico del Sud, invece, è proprio nell’unificazione, che fu una spoliazione del Regno delle Due Sicilie. Un libro dell’Editoriale il Giglio, a cura del prof. Gennaro De Crescenzo (I peggiori 150 anni della nostra storia. L’unificazione come origine del sottosviluppo del Sud, uscito nel 2012) raccoglie contributi di economisti e studiosi non sospettabili di simpatie borboniche sugli effetti devastanti dell’unificazione sull’Economia di quello che sarebbe diventato “Il Mezzogiorno d’Italia”.
I “meridionalisti” alla Giannola, alla Viesti, alla Laterza ecc. continuano a negare l’evidenza. Ideologicamente sono gli eredi di Giustino Fortunato (1848-1932), Francesco Saverio Nitti (1868-1953), Gaetano Salvemini (1873-1857), Guido Dorso (1892-1847). Liberali, radicali, oppure socialisti, questi “meridonalisti” antepongono il mito ideologico del progresso alla realtà dei fatti. Nitti arriva ad ammettere che il governo dei Borbone era “onesto”, che i loro ordinamenti amministrativi erano “spesso ottimi” e riconosce che il divario tra Nord e Sud dell’Italia era “minimo” al momento dell’unificazione, ma considera i Borbone colpevoli di non aver “sentito i tempi nuovi”. E di non aver avuto “altezza di vedute”. Cioè di non aver ceduto alla modernità, di aver resistito al liberalismo che avanzava, e di aver rifiutato, con Ferdinando II, di entrare nell’orbita delle potenze dominanti, Inghilterra e Francia, per difendere l’indipendenza delle Due Sicilie, erede – come ricordavano orgogliosamente i Re borbonici – dell’antica “monarchia di Re Ruggiero”, cioè di un’esperienza amministrativa unitaria che aveva coinvolto a partire dai Normanni, nell’XI secolo, i territori dell’attuale Sud e ne aveva determinato, sia pure nelle differenze, una sostanziale unità culturale.
È lo stesso atteggiamento ideologico di chi oggi ripete “ce lo chiede l’Europa …” e identifica il progresso con le aberrazioni dei tecnocrati dell’UE, che lavorano a disfare le identità nazionali ed a dissolvere le culture locali in nome della costruzione della società multiculturale.
L’unificazione dell’Italia, per questi “meridionalisti”, era “ineluttabile”. E peggio per chi si è opposto al “carro della Storia”.
Ma la “questione meridionale” nasce solo all’indomani dell’unificazione. E l’immagine di un Regno delle due Sicilie arretrato e sottosviluppato, è funzionale alla costruzione del mito del Risorgimento, e della “liberazione” del Sud.
Ecco perché un secolo e mezzo di “meridionalismo” e “neomeridionalismo” non ha prodotto che un divario rafforzato tra Nord e Sud, e carrozzoni come lo Svimez e la Cassa per il Mezzogiorno , serviti a distribuire lauti compensi ed a trasferire risorse pubbliche alle imprese del Nord. Il ceto politico meridionale ha intermediato la distribuzione di queste risorse in cambio del consenso assicurato ai partiti nazionali.
Con i Fortunato, i Nitti ed i Salvemini, e meno ancora con i Giannola & C., che rimpiangono Cavour, il Sud non farà un passo avanti, come non lo ha fatto negli ultimi decenni. Il punto di partenza per chi vuole ricostruirne la memoria storica ed innescare uno sviluppo economico autopropulsivo, con centri decisionali ubicati al Sud e risorse umane non obbligate all’emigrazione, è il riconoscimento che l’unificazione è stata la causa e l’inizio della crisi. Bisogna ripartire da qui, con un discorso di verità. (LN115/17)