La vicenda è nota. Charlie Gard è un bambino inglese, nato il 4 agosto 2016, primogenito di Chris Gard e Connie Yates, entrambi trentenni. Dopo un parto normale, i genitori cominciano a notare difficoltà nella crescita del bambino e lo ricoverano al Great Ormond Street Hospital di Londra, eccellenza pediatrica del Regno Unito, dove gli viene diagnosticata una rarissima malattia genetica, la sindrome da deperimento del dna mitoncondriale, di cui si contano soltanto 16 casi al mondo.

Per i medici dell’ospedale, la diagnosi equivale ad una sentenza definitiva: non solo non ci sono cure ma si deve procedere a staccare ogni sostegno vitale al bambino “nel suo interesse”, per evitare di “prolungarne il processo di morte” e per garantirgli una “morte dignitosa”, come si dice sempre in questi casi.

In pratica, i medici vogliono ricorrere all’eutanasia per far morire il piccolo Charlie.

I genitori del bambino, invece, vogliono trasferirlo negli Stati Uniti per sottoporlo ad una terapia, sperimentale ma scientificamente accreditata, che ha dato buoni risultati in alcuni casi simili. Per reperire i fondi necessari lanciano una campagna di crowdfunding su Internet, che in poche settimane raccoglie un milionequattrocentomila sterline da oltre 80mila donatori.

La decisione dei medici del Great Ormond Hospital di Londra, però, è vincolante secondo la legge inglese che regola la sospensione dei trattamenti per tenere in vita qualcuno e l’accesso ai trattamenti sperimentali,  e sospende la patria potestà dei genitori e la loro libertà decisionale nei confronti del bambino: non sono più i genitori a decidere cosa è bene per il figlio.

Chris e Connie devono ricorrere a tutti i gradi del tribunale per bloccare l’azione del Great Ormond Hospital, fino a che l’Alta Corte di giustizia, con la sentenza dell’11 aprile 2017, dà ragione ai medici e stabilisce che siano sospesi i sostegni vitali al piccolo (8 mesi), paventando che si possa approfittare della sua situazione per sperimentare nuovi farmaci o nuove cure con ulteriori sofferenze.

I genitori infine si appellano alla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), che si pronuncia il 27 giugno 2017 respingendo il ricorso e sostenendo che «le decisioni dei tribunali nazionali sono state meticolose e accurate e riesaminate in tre gradi di giudizio con ragionamenti chiari ed estesi». Inoltre, i giudici di Strasburgo affermano che non spetta a loro sostituirsi alle autorità nazionali considerato il «considerevole margine di manovra che gli Stati hanno nella sfera dell’accesso alle cure sperimentali per malati terminali e nei casi che sollevano delicate questioni morali ed etiche».

Vale a dire, la CEDU non interferisce con le leggi nazionali che regolano l’accesso alle cure e il fine vita, mentre interferisce volentieri quando si tratta di obbligare gli Stati a sradicare il diritto naturale dalle leggi su matrimonio e famiglia, o sulla libertà di educazione, per esempio.

In difesa di Charlie si sono levati la gente comune, le associazioni pro-vita, il volontariato cattolico, persone con un grande cuore ma senza potere, purtroppo. Invece, chi il potere ce l’ha – politico, religioso, morale – è stato zitto, ha distolto lo sguardo, ha taciuto al mondo la Verità sull’uomo e sul suo destino.

Così, oggi 30 giugno, il piccolo Charlie, che ha 10 mesi, sarà sedato e gli sarà tolto il respiratore che lo aiuta a vivere. Poi, i genitori e il personale medico lo guarderanno morire lentamente di asfissia. Tutto avverrà in ospedale perché ai genitori non è stato concesso neppure di poterlo portare a morire a casa.

 

Il senso di questa storia

Al di là dell’orrore e della pena che la vicenda solleva, la morte di Charlie rappresenta il passaggio ad un nuovo livello del concetto di umano, nel quale il  diritto alla vita viene ulteriormente ridotto e sottoposto al potere di leggi ed autorità che tradiscono il loro mandato primario che è appunto la tutela dell’innocente, soprattutto quando è in situazione di debolezza.

Colpisce la determinazione inappellabile di medici (che avrebbero potuto semplicemente dimettere il bambino, constatata l’impossibilità di curarlo) e dei giudici nel perseguire l’uccisione del bambino e nell’assicurarsi che avvenga effettivamente, ovviamente nel suo “maggiore interesse” e “con dignità”.

Dunque, un’autorità ha il potere di sopprimere un cittadino innocente sulla base di un criterio ancor più indefinito del classico concetto di “qualità della vita”. La vita di Charlie semplicemente non ha motivo di continuare, non avrebbe proprio dovuto iniziare.

Il discorso non è nuovo, è alla base delle leggi sull’eutanasia di tutto il mondo, ma in questo caso il passaggio ulteriore è che il criterio arbitrario rende obbligatoria la morte.

 

Accanimento, eutanasia, omicidio

Finora, infatti, la sospensione dei trattamenti veniva giustificata nel caso di “accanimento terapeutico”, che consiste in “interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, [..] la rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte” (Evangelium Vitae, n. 66).

Mezzi straordinari nell’imminenza della morte, questo è accanimento terapeutico. I supporti vitali, cioè idratazione, alimentazione e ventilazione assistite e i trattamenti di cura normale (analgesici, antipiretici, antibiotici, procedure igieniche interne ed esterne) sono forme di accanimento? NO. Vanno praticate fino alla fine, cioè fino a quando l’organismo non le recepisce più e non ne trae giovamento? SÌ.

Charlie non è in fin di vita (anzi in questi mesi è cresciuto, come mostrano le foto) e non lo era quando la vicenda è iniziata e i medici hanno sentenziato la sua morte. Chi può dire quale sarebbe oggi la sua condizione se sei mesi fa i genitori avessero potuto portarlo in America a curarsi? Forse non avrebbe nemmeno avuto bisogno del respiratore che oggi gli toglieranno.

Sottrarre i supporti vitali ad un ammalato non è “staccare la spina” (altra espressione abusatissima) ma equivale ad una forma di eutanasia attiva, cioè ad agire in modo che una persona muoia, e che sia con un’iniezione letale o per mancanza di mezzi di sussistenza fa poca differenza. Privare una persona, qualunque sia la sua condizione, di cibo, acqua e aria è un omicidio, efferato. È quello che è accaduto a Terry Schiavo (13 giorni di agonia, USA 2005) e a Eluana Englaro (3 giorni di agonia, Italia 2009).

 

Dal diritto alla vita, al diritto di morire, al dovere di morire.

La Germania nazista usava la formula “vite indegne di essere vissute” per eliminare disabili e malati mentali, cioè tutti gli individui improduttivi che rappresentavano un costo per la società.

Oggi, questa visione è stata ratificata da quattro sentenze di tribunali e si è stabilito che chi vi si oppone, come i genitori di Charlie, sarà privato dei propri diritti naturali e legali.

Da oggi, il diritto alla vita, se ancora si può chiamare così, è determinato da una valutazione arbitraria, slegata persino dalle giustificazioni adottate finora come la complessità o l’efficacia delle cure necessarie, il loro costo, la volontà espressa dal malato o da chi ne è tutore.

Da oggi, un’autorità terza (commissioni mediche, tribunali, altro) deciderà chi deve morire perché ritiene la sua condizione inaccettabile. Naturalmente, per un po’ ancora continueranno ad ammantare la cosa di nobili ideali, quali la “qualità della vita”, la “dignità della morte”, il “bene superiore” del condannato, ma la sostanza è questa: da oggi si passa dal “diritto di morire” al “dovere di morire”.

I primi a cadere saranno i bambini disabili, sfuggiti alla scure dell’aborto per caso o per volontà dei genitori. Non sarà difficile convincere la gente che lasciarli in vita sarebbe una condanna peggiore della morte.

Poi, gradualmente, le cure normali – antibiotici, chemioterapici, operazioni chirurgiche – cominceranno a non essere più considerate utili dopo una certa età, oppure in presenza di altre invalidità.

Gli ultimi, probabilmente, saranno i portatori di patologie sociali, quelle persone che per le loro scelte di vita, per le loro convinzioni, per la loro fede magari, “vivono una vita infelice” perché inadatta al mondo moderno.

Assurdo? Non tanto, è successo per l’eutanasia nei paesi che per primi hanno varato leggi, come l’Olanda e il Belgio. Da estremo “rimedio per liberare dal dolore casi limite”, oggi l’eutanasia si pratica anche per la depressione (cfr. qui) e per la semplice vecchiaia “perché non debba pesare sui figli” (cfr. qui e qui).

Di sicuro, guardando l’accelerazione che negli ultimi anni è stata impressa al processo di disgregazione dell’umano, non ci vorrà molto tempo per arrivarci.

Ed accadrà nel silenzio generale.

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Il 30 giugno, a Charlie è stata concessa una proroga di qualche giorno per dare modo ai genitori di adattarsi psicologicamente all’evento.

Non è il caso di alimentare false speranza, ma per chi volesse in qualche modo far sentire la propria voce in difesa della vita di Charlie e del diritto dei suoi genitori, segnaliamo che si può scrivere un breve commento sulla pagina Facebook del Great Ormond Street Hospital  (https://www.facebook.com/GreatOrmondSt/)

oppure chiamare il  centralino dell’Ambasciata del Regno Unito a Roma (06 422 000 01).

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La battaglia legale per Charlie è durata ancora 28 giorni, dopo la data del 30 giugno che era stata fissata come definitiva.

In realtà, la mobilitazione popolare internazionale ha bloccato l’esecuzione, probabilmente per il timore del Great Ormond Hospital di un crollo d’immagine.

I genitori hanno continuato a chiedere di poter sottoporre il bambino alla terapia sperimentale americana e l’ospedale è ricorso nuovamente al giudice perché vagliasse l’opportunità di prendere in considerazione nuovi protocolli medici. Anche l’Ospedale Bambin Gesù di Roma si è offerto di mettere in atto una terapia se fosse stato concesso il trasferimento del bambino. Alla fine di un lungo braccio di ferro, è stato ascoltato dalla Corte inglese il dottor Michio Hirano, luminare della neurologia alla prestigiosa Columbia University di New York e responsabile del protocollo sperimentale. Hirano, dopo aver visitato Charlie, ha dovuto concludere che era troppo tardi per sottoporlo alla terapia: non solo si era perso troppo tempo prezioso ma negli ultimi due mesi il bambino era stato privato di qualunque tipo di prestazione di mantenimento e le sue condizioni erano ormai compromesse.

I genitori, a quel punto, hanno rinunciato all’azione legale per portare il figlio negli Stati Uniti e hanno chiesto almeno di poterlo portare a casa per qualche giorno prima della morte. Neppure questo è stato concesso.

Il tribunale inglese e il Great Ormond Hospital non hanno accettato alcuna proposta della famiglia, che pure aveva trovato specialisti della rianimazione e infermieri disposti a prendersi cura del bambino e dei macchinari necessari, adducendo motivazioni ridicole come le dimensioni della porta d’ingresso.

Rifiutando tutti i tentativi dei genitori, il giudice dell’Alta Corte Britannica, Justice Francis, ha dichiarato di «non poter rischiare che qualcosa vada storto».

Così, venerdì 28 luglio 2017, Charlie è stato trasferito in un hospice (luogo e orario sono stati tenuti segreti), nel primo pomeriggio gli hanno tolto i tubi che portavano ossigeno nei suoi polmoni ed è stato lasciato morire.

L’annuncio della sua morte è stato dato dal papà e dalla mamma con queste parole: «Il nostro splendido bambino se n’è andato. Siamo veramente orgogliosi di Charlie».