L’articolo di Giacomo Rocchi, magistrato presso il Tribunale di Firenze, analizza il testo della legge 194 sull’aborto, e svela le reali intenzioni del legislatore nella composizione di un testo ambiguo e volutamente incoerente, il cui unico scopo era la piena liberalizzazione dell’aborto. Lettura indispensabile per evitare l’equivoco di credere che “se la 194 fosse ben applicata in tutte le sue parti sarebbe una buona legge”, vergognosa affermazione diffusa da movimenti pro vita che, in nome di pretese strategie di apertura al dialogo, hanno abbassato sempre di più il livello della battaglia, finendo per assumere posizioni di compromesso e scoraggiando qualsiasi tentativo di  ricostruzione di un fronte veramente antiabortista in Italia. Intanto, in quasi quaranta anni di 194, sono stati uccisi 5 milioni e mezzo di bambini.  (I corsivi tra parentesi sono della nostra redazione)


 

 

Non esiste una parte buona della 194!

di Giacomo Rocchi

1. In questo periodo, dopo il fallimento del referendum abrogativo della legge sulla procreazione assistita (Referendum sulla Legge 40/2004, del 12 giugno 2005; n.d.r.), molti denunciano un attacco da parte dei cattolici al diritto di aborto sancito nel 1978.
Dalla parte opposta si risponde sostanzialmente con due affermazioni: a) non vi è alcuna intenzione di modificare la legge n. 194; b) l’applicazione della legge in questi anni è avvenuta contro lo spirito e la lettera della legge stessa; la disciplina dovrebbe, quindi, essere integralmente e correttamente applicata anche nelle parti in cui prevede misure che dissuadano le donne che intendono abortire e le aiutino a prendere la decisione opposta, quella cioè di portare a termine la gravidanza.
In realtà lo stato di attuazione della legge n. 194 corrisponde integralmente alla volontà del legislatore del 1978 così come espressa nel testo legislativo.

2. Prima dell’analisi giuridica, si possono avanzare due considerazioni generali di carattere logico.
a) Se una legge è stata attuata in un certo modo per quasi trenta anni (1978 – 2005) è molto difficile dimostrare che ciò non sia stata la conseguenza di quanto voluto dal legislatore; si può, cioè, presumere (almeno in prima battuta) che l’attuazione concreta di qualsiasi provvedimento legislativo sia conforme al testo approvato e alla volontà del Parlamento: affermare il contrario comporta l’onere di dimostrare che l’attuazione che si ritiene difforme rispetto al dettato legislativo derivi da fattori diversi ed estranei che, ovviamente, occorre individuare.
L’operazione appare difficoltosa: ad esempio, quanto alle modalità di intervento dei consultori pubblici, si dovrebbe dimostrare che vi è stata la volontà non di una o due persone, ma di una grande quantità di gruppi di persone sparsi su tutto il territorio nazionale di agire contra legem: quindi una sorta di complotto contro la legge 194; si dovrebbe poi spiegare il motivo per cui le istituzioni pubbliche non hanno reagito in questi anni con gli strumenti a disposizione (sanzioni penali, sanzioni amministrative, chiusura dei consultori riottosi ad applicare la legge e così via…)
b) Non può sorprendere che le misure dissuasive e preventive non abbiano sortito, nel loro complesso, l’efficacia sperata se si tiene conto che la condotta che si voleva evitare – l’interruzione volontaria della gravidanza – veniva contestualmente resa lecita dalla legge. La prevenzione di determinate condotte da parte della legge è di solito accompagnata al loro divieto e alla repressione delle eventuali violazioni. I potenziali destinatari ricevono, cioè, un messaggio chiaro: questa condotta non è ammessa ed è punita; lo Stato (o gli enti preposti) fornisce strumenti per evitare la condotta vietata. Se invece la condotta che si vuole prevenire è dichiarata lecita (anzi: è riconosciuta come un diritto) l’opera delle autorità pubbliche di prevenzione e dissuasione sarà inevitabilmente indebolita: per quale motivo astenersi dall’esercizio di un diritto?

3. Ricordiamo brevemente quale sia l’iter previsto per giungere all’aborto volontario. Nei primi 90 giorni dall’inizio della gravidanza la donna che intende abortire può rivolgersi alternativamente ad un consultorio pubblico, ad una struttura socio-sanitaria o a un medico di fiducia e ivi sostiene un colloquio. Se il medico del consultorio o della struttura o di fiducia riscontra l’esistenza di condizioni che rendono urgente l’intervento rilascia un certificato alla donna che le permette di abortire e che costituisce titolo per ottenere in via d’urgenza l’intervento; nel caso contrario, se la donna chiede di abortire gli stessi medici le rilasciano un documento che attesta la gravidanza e l’avvenuto colloquio: dopo sette giorni la donna può presentarsi in una struttura sanitaria per sottoporsi all’intervento (articoli 4 e 5 della legge). Dopo i primi 90 giorni l’aborto può essere eseguito solo in caso di grave pericolo per la vita della donna derivanti dalla gravidanza o dal parto oppure quando processi patologici determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna: entrambi i casi devono essere accertati dal medico del servizio ostetrico ginecologico dell’ospedale dove deve praticarsi l’intervento. Nel caso sussista la possibilità di vita autonoma del feto, però, l’aborto può essere praticato solo in caso di pericolo di vita per la donna e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.

4. A leggere l’articolo 4 potrebbe sembrare che, nei primi 90 giorni, solo un “serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna” renda lecito l’aborto: ma così non è. Infatti non solo le ipotesi previste sono così ampie e variegate da poter escludere che possano incidere sulla “salute” della donna (condizioni economiche, sociali, familiari, circostanze del concepimento, previsioni di anomalie o malformazioni del concepito), ma soprattutto la legge si limita a pretendere: a) che la donna “accusi” tale circostanze (cioè affermi che esse esistono); b) richieda di procedere all’aborto; c) attenda sette giorni; d) si presenti all’ospedale per abortire. Il medico, nel documento che consegnerà alla donna, non certificherà l’esistenza di tali circostanze, ma si limiterà ad attestare lo stato di gravidanza e la richiesta di abortire.
Si tratta di una piena applicazione del principio di autodeterminazione della donna: nessuno può impedire ad una donna maggiorenne non interdetta di non abortire se ella lo vuole, qualunque siano i motivi della sua richiesta. Come si vede l’articolo 4 è stato scritto per essere in buona parte disapplicato.

5. Veniamo, allora, all’opera di dissuasione dall’aborto che dovrebbero svolgere i consultori familiari: l’articolo 2 prevede che essi assistano la donna in stato di gravidanza, informandola sui diritti spettanti, attuando o proponendo interventi diretti di aiuto e contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurla all’interruzione della gravidanza; per questi compiti l’articolo 3 prevedeva uno stanziamento annuale di lire 50 miliardi. L’intervento del consultorio è richiamato anche dall’articolo 5: se la donna si rivolge al consultorio perché intende abortire, nel colloquio devono essere esaminate le possibili soluzioni dei problemi proposti e il consultorio deve offrire tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto.
In che misura queste previsioni sono destinate ad essere efficaci? In misura minima: in primo luogo perché la donna che intende abortire non è obbligata a rivolgersi al consultorio, potendo, invece ottenere il documento che le permetterà l’intervento anche da una struttura socio-sanitaria o da un medico di sua fiducia; in secondo luogo perché il contenuto del colloquio tra donna e personale del consultorio è irrilevante ai fini del rilascio del documento che deve essere emesso al termine del colloquio. In definitiva: nell’ambito di una specifica procedura di interruzione volontaria della gravidanza l’intervento dissuasivo del consultorio è volutamente reso irrilevante e quindi tendenzialmente inefficace; restano poi i compiti generali (quelli dell’articolo 2) il cui mancato rispetto da parte del consultorio non è in nessun modo sanzionato.

6. Si potrà obbiettare che l’opera di dissuasione potrà essere compiuta dal medico cui si rivolge la donna: ma l’intervento del medico è irrilevante per gli stessi motivi; inoltre la legge è molto attenta a prevedere che la donna possa rivolgersi “ad un medico di sua fiducia”: quindi non un determinato professionista, ma a qualsiasi medico. Se, quindi, la donna si troverà di fronte ad un primo rifiuto avrà la possibilità di rivolgersi ad un numero indeterminato di altri professionisti.

7. Tornando ai consultori, un inciso: l’azione dei consultori diventa improvvisamente efficace quando si tratta di minorenni. Non solo, infatti, la legge (art. 2 ultimo comma) permette di somministrare alle ragazze minori “i mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile” (cioè i contraccettivi, tra i quali è compresa anche la cosiddetta pillola del giorno dopo, con effetto abortivo), si intende all’insaputa dei genitori; ma il consultorio può intervenire per aiutare la minorenne ad abortire nei primi 90 giorni, anche in questo caso all’insaputa dei genitori, quando vi sono “seri motivi che impediscano o sconsiglino” la loro consultazione, trasmettendo direttamente la propria relazione al giudice tutelare.

8. Quanto al tema della collaborazione tra i consultori e le associazioni di volontariato, oggetto di una specifica polemica in questi giorni: l’art. 2 comma 2 della legge prevede che i consultori, sulla base di appositi regolamenti o convenzioni, possono avvalersi della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato. Come si vede la norma permette tale collaborazione ma non obbliga i consultori ad farne ricorso: essi possono avvalersi ma anche non avvalersi della collaborazione. Nessun consultorio, quindi, potrà essere ritenuto inadempiente alla legge se non si avvale della collaborazione del volontariato: i responsabili hanno una piena discrezionalità su questo punto, potendo addirittura valutare come non idonee le formazioni sociali di base e le associazioni di volontariato …

9. Quale efficacia hanno i principi generali stabiliti dall’articolo 1 della legge?
“Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile”: si è già visto che il principio è attuato nel senso della massima diffusione possibile dei contraccettivi, anche ai minorenni.
“(Lo Stato) riconosce il valore sociale della maternità”: la norma non ha nessuna attuazione concreta nel testo della legge.
“(Lo Stato) tutela la vita umana dal suo inizio”: si tratta di previsione volutamente inefficace: in primo luogo perché generica quanto al momento in cui inizia la vita umana (così da non sottoporre alle procedure della legge l’uso dei medicinali di “contraccezione di emergenza”, che hanno l’effetto di uccidere il concepito impedendone l’annidamento nell’utero materno); in secondo luogo perché, trattandosi di norma dal contenuto programmatico presente in una legge ordinaria non ha alcuna efficacia vincolante e può quindi essere disapplicata da questa o da altre leggi. Ne consegue che la “tutela” (sic!) della vita umana nascente è quella disegnata dalle norme di diretta applicazione: e quindi – quanto meno nei primi 90 giorni di gravidanza – è rimessa esclusivamente alla volontà della madre (il principio di autodeterminazione viene, non a caso, sostenuto affermandosi che è la madre, nella sua libertà, a potere adottare la migliore tutela possibile del bambino).
Vi era, fra l’altro, un ambito diverso in cui il legislatore del 1978 avrebbe potuto effettivamente tutelare la vita umana fin dal suo inizio: quello delle pratiche di diagnosi prenatale, i cui abusi sono ben noti e che conducono spesso a morte o a lesioni al feto; ma nessuna limitazione è dettata. Anzi, la legge presuppone, se non sollecita, l’utilizzo di tali pratiche alla ricerca di “anomalie o malformazioni del concepito”.
“L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo di controllo delle nascite”: l’aborto, quindi, non dovrebbe essere usato come un contraccettivo. Il legislatore fornisce qui una definizione dell’aborto volontario palesemente priva di efficacia: il singolo aborto sarà o meno usato come mezzo di controllo delle nascite in conseguenza delle scelte della donna che liberamente vi si sottoporrà. Il legislatore, cioè, non può essere in grado di conoscere quale sarà il comportamento delle donne che, nel futuro, utilizzeranno le procedure previste: piuttosto avrebbe dovuto creare procedure che impedissero l’utilizzo dell’aborto come contraccettivo. Le procedure create, al contrario, permettono proprio un utilizzo in questo senso: nei primi novanta giorni di gravidanza, che sono quelli in cui l’aborto può essere utilizzato come alternativa ai contraccettivi o come rimedio al loro fallimento, come si è visto la decisione di interrompere la gravidanza è lasciata alla discrezionalità della donna (che, addirittura, potrebbe avanzare la richiesta in relazione a “circostanze in cui è avvenuto il concepimento”, riferimento generico che comprende, sì, una violenza sessuale subita, ma anche malfunzionamenti o dimenticanze concernenti l’uso di contraccettivi). Si è poi visto come la legge abbia voluto liberalizzare i cosiddetti contraccettivi di emergenza, che spesso hanno effetto abortivo. Insomma: le donne sono libere di usare l’aborto come unico contraccettivo o come contraccettivo “di rincalzo” senza che nessun ostacolo venga loro frapposto, anche se dovranno, forse, sorbirsi la ramanzina del medico che (art. 14) deve fornire loro “le informazioni e le indicazioni sulla regolazione delle nascite” (“la prossima volta stia più attenta …”).

10. Da parte di alcuno ci si lamenta che, in questi decenni, l’aborto sia stato usato con finalità eugenetiche contro la lettera e lo spirito della legge n. 194. Al contrario l’utilizzo dell’aborto per sopprimere embrioni malati o malformati è esplicitamente autorizzato dalla legge. Già nei primi novanta giorni una delle cause che legittimano la richiesta di interrompere la gravidanza è la “previsione di anomalie o malformazioni del concepito”: si noti la parola “previsione”, che non significa “accertamento”; basta, quindi, che la donna tema che il figlio sia malato o malformato per giustificare il ricorso all’aborto. Ma l’ispirazione eugenetica della legge si ricava ancora più esplicitamente dall’articolo 6, che regola l’interruzione della gravidanza nel periodo successivo: in caso di rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro sarà possibile l’aborto nel caso sussista un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. In sostanza il medico non dovrà accertare se le malattie del feto siano o meno curabili, ma concentrarsi sulla salute psichica della donna (si ricordi che il concetto di salute è inteso come benessere psicofisico) e valutare se la consapevolezza di portare in grembo un figlio malato o anche di doverlo, poi, allevare possa incidere su di essa.

11. Limitandosi a queste considerazioni, le conclusioni paiono evidenti: il legislatore ha voluto che l’aborto nei primi tre mesi fosse assolutamente libero e che la donna intenzionata ad abortire non incontrasse nessun ostacolo riguardante i motivi della sua decisione e potesse anche evitare l’opera dissuasiva svolta da enti o soggetti pubblici o privati.
Il legislatore si è, quindi, preoccupato affinché la procedura fosse rapida ed efficiente (nel Paese della malasanità, l’attesa media per l’intervento è di circa 10 giorni dalla richiesta; n.d.r.): il documento costituisce titolo per ottenere l’intervento in via d’urgenza (art. 8 ultimo comma) e l’intervento è gratuito (articolo 10); alla donna è garantito l’anonimato (art. 11 e articolo 21). In questa ottica di efficienza deve essere purtroppo vista la regolamentazione dell’obiezione di coscienza, senza dubbio doverosa da parte del legislatore, ma che presenta il “vantaggio” di togliere di mezzo gli obbiettori dalle procedure che devono, comunque, essere garantite.

12. Le parti della legge in cui si auspica che l’aborto sia limitato a determinate ipotesi o si stabiliscono aiuti e interventi a favore delle donne in difficoltà in conseguenza della gravidanza restano, quindi, meri auspici di un legislatore ipocrita che non credeva affatto ad essi e che ha reso tali parti inevitabilmente inefficaci. La tutela della vita umana nascente non può, quindi, che passare da una abrogazione o comunque da una modifica della legge n. 194 e non certo da una sua piena applicazione che, non solo vi è già stata e che non può che indirizzarsi verso un uso – se possibile – ancora più libero e diffuso dell’aborto. Non sbagliarono, quindi, i promotori del referendum abrogativo – quello massimale, non ammesso dalla Corte Costituzionale con motivazione assai discutibile; non sbagliarono i cittadini che, sia pure sconfitti, affermarono con decisione che la legge n. 194 era gravemente ingiusta.

Libertà e Persona, 4 gennaio 2008

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