Vi sono personaggi poco o nulla conosciuti, o relegati a ruoli minori dalla narrazione storica, che invece meriterebbero ben altri onori perché hanno speso la propria vita per ideali che travalicano l’importanza degli stessi avvenimenti di cui sono stati protagonisti. Come coloro che, in ogni tempo, combatterono guerre che non li avrebbero coinvolti se essi stessi non avessero scelto liberamente di mettere il proprio valore al servizio di una causa e di una fede.
Non di mercenari si parla, naturalmente, ma di cavalieri, perché proprio con la Cavalleria medioevale nasce la nobile figura del soldato che combatte, non per offendere o depredare, ma per difendere ed onorare il sacro giuramento fatto in nome della Giustizia.
Il cavaliere doveva essere valoroso in battaglia e possedere coraggio ed abilità, ma doveva essere anche generoso, disinteressato, fedele e pio. Investito in nome di San Michele e San Giorgio,dopo una veglia d’armi trascorsa in preghiera, il cavaliere combatteva ovunque, sotto diverse bandiere, perché il suo giuramento di fedeltà lo impegnava sì verso una terra ed un Re ma soprattutto lo legava alla tradizione della Cristianità.
Lo spirito della Cavalleria si perpetuò nei secoli, animando quei volontari che impugnarono le armi, in tutti i tempi e i luoghi della storia, ogni volta che la rivoluzione imperversò, portando ingiustizia, sopruso e disordine.
L’invasione del Regno delle Due Sicilie fu uno di quei momenti, e anche allora si formarono interi corpi di volontari legittimisti, provenienti da ogni parte d’Europa e persino dagli Stati Uniti. Di tanti che combatterono al fianco dei soldati napoletani, nelle fortezze del Regno e anche agli ordini diretti di Francesco II, non è rimasto neppure il ricordo del nome, ma il loro valore e il loro onore è testimoniato dalla vita, e spesso dalla morte, dei pochi che conosciamo.
Come il conte Emile Théodule de Christen, figlio cadetto di una nobile famiglia alsaziana, combattente sugli spalti di Gaeta.
Dedicatosi, come d’uso, alla vita militare in giovane età, raggiunse il grado di colonnello nell’esercito francese a soli venticinque anni. Congedato nel 1860, mise il proprio valore al servizio della causa legittimista e si recò a Roma per partecipare alla difesa dello Stato Pontificio che si trovava sotto la minaccia rivoluzionaria italiana. De Christen era appunto a Roma, quando il re Francesco II lasciò Napoli, per continuare nella fortezza di Gaeta la difesa del Regno contro le truppe garibaldine e piemontesi.
Da vero cavaliere medioevale in armi contro l’ingiustizia, il coraggioso conte de Christen raggiunse la cittadella napoletana, dove assunse il comando di uno di quei corpi di volontari stranieri, come lui accorsi in aiuto del re delle Due Sicilie. Giovane, entusiasta ed animato da una viva fede legittimista, il nobile Emile guidò le sue truppe di vittoria in vittoria, in Abruzzo, a Bauco, in Terra di Lavoro, sugli spalti di Gaeta, fino al termine della resistenza militare.
La partenza per l’esilio di Francesco II non rappresentò per i Napoletani la fine della speranza nella libertà e l’indipendenza del Regno: si trattava di continuare a resistere, cambiando strategia. Anche De Christen, dunque, si recò a Napoli per prendere parte alla sollevazione che si progettava contro l’occupazione piemontese. La congiura, però, fu tradita ed Emile, accusato da un delatore, fu imprigionato nel carcere di Santa Maria Apparente.
Della lunga prigionia rimane il diario scritto dal giovane alsaziano, vivace testimonianza della giustizia riservata ai napoletani dopo l’unificazione d’Italia.
Il conte de Christen, infatti, prima di essere processato attese quasi un anno in carcere, condividendo la sorte dei centomila napoletani arrestati in meno di un anno e mezzo, la maggior parte dei quali non ottenne mai un regolare processo e una condanna definitiva. Se regolari potevano dirsi i processi celebrati nei tribunali unitari, dopo l’epurazione dei ranghi della magistratura e l’insediamento di giudici graditi al nuovo regime.
Un esempio della correttezza procedurale usata è riportato nel diario di de Christen: durante l’istruttoria, un testimone oculare, chiamato ad identificarlo, sbagliò indicando il suo vicino di sedia; l’errore fu corretto dal magistrato in persona, che indicò al testimone colui che doveva essere accusato.
Non meno grottesco fu lo svolgimento del processo, nel corso del quale il Presidente permise al testimone d’accusa di modificare, durante il dibattimento, per ben quattro volte la propria deposizione, accettando per buone tutte le versioni fornite. Il giudice accettò anche, come prova della partecipazione alla congiura, un biglietto scritto in francese e opportunamente tradotto in italiano, con l’aggiunta di otto righe ex novo per renderlo più chiaro.
Se questo accadeva nel caso di un cittadino straniero tutelato, sia pure senza troppo impegno, dalla propria Ambasciata e dagli osservatori internazionali, possiamo immaginare cosa capitava ai soldati e ai comuni cittadini napoletani che a centinaia di migliaia nel Regno – più di sedicimila nella sola Napoli – furono incarcerati senza la formulazione di una qualsiasi accusa. Effetto della tristissima tariffa del sangue, una sorta di prezzario in base al quale si pagavano le delazioni, vere o false che fossero, per la cattura di legittimisti e patrioti, classificati ovviamente come briganti. Il nome era stato attribuito dal popolo, perché l’esito dell’arresto era scontato: una relazione al Parlamento inglese valutò che furono 1.038 i prigionieri fucilati in meno di due anni dall’unificazione d’Italia, stando ai soli documenti ufficiali certamente lontani dalla realtà.
Emile de Christen fu condannato a dieci anni di galera, da scontare dapprima nel bagno penale di Nisida, poi nel carcere piemontese di Gavi.
Molto ci sarebbe da dire sulle carceri post-unitarie basandosi su testimonianze dirette di osservatori inglesi o di appaltatori di fiducia delle autorità italiane. Ci basti la descrizione che de Christen riporta nel suo diario: le catene cingevano piedi e mani ed univano i prigionieri due a due; il cibo e lo stato igienico erano causa di continue malattie; le ferite da percosse e torture venivano lasciate incancrenire; detenuti politici e comuni vivevano in promiscuità; era impossibile comunicare con familiari o ambasciatori; la censura cancellava lettere e scritti.
Il nuovo regime aveva provveduto a nominare direttori delle carceri e capi delle guarnigioni compiacenti, molti dei quali provenivano dalle fila della camorra e della delinquenza e conoscevano quei luoghi per avervi già soggiornato da prigionieri per i loro crimini.
Per sua fortuna de Christen fu scarcerato dopo due anni di detenzione, grazie a pressioni internazionali alle quali il governo piemontese cedette proclamando un’amnistia.
Sorte ben diversa toccò alle migliaia di patrioti napoletani che languivano nelle carceri del nord come Fenestrelle, morti di stenti e di maltrattamenti o rimasti per decine d’anni nelle galere italiane per aver commesso il grave reato di essere stati fedeli al proprio Re e al proprio Paese.
Il conte de Christen non smise di combattere la sua buona battaglia e, libero da poche settimane, si recò a Roma per prendere contatti con gli esuli napoletani. Vi rimase, con il suo battaglione di volontari stranieri, in difesa del Papa e combatté contro Garibaldi nel 1867 e contro i piemontesi nel 1870.
Mancò al valoroso soldato l’onore di morire sul campo di battaglia: logorato da una vita spesa senza mai risparmiarsi, si spense per una grave malattia a soli trentacinque anni.
Nel suo diario scrisse: «Vinto oggi, non avrò per i miei vincitori amare parole; ma un giorno noi ci ritroveremo faccia a faccia; poiché, conservando in fondo all’anima tutte le mie convinzioni, attendo con fede invincibile l’ora della giustizia».
Indomito e fedele, Emile de Christen incarnò fino all’ultimo l’autentico spirito della Cavalleria.
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