Gennaro De Crescenzo

Contro Garibaldi.

Appunti per demolire il mito di un nemico del Sud

prima edizione 2006 – ristampa 2013

pagine 104

€ 10,00 – sconto Soci 30%

 

 

Un Paese privo di identità nazionale, senza simboli comuni e riconosciuti da tutti gli abitanti, ha bisogno di miti.
Quello dell’ “eroe dei due mondi” fu il prodotto della storiografia risorgimentale, espressione di quella piccola minoranza ideologica che unificò con la forza e l’inganno l’Italia.
Usurato dal tempo, incapace di suscitare entusiasmi, ma ormai fissato definitivamente nell’olimpo mitologico dell’Italietta del Novecento, la figura di Garibaldi, in tempi più recenti, fu ripescata in chiave politica da chiunque fosse alla ricerca di una legittimazione del proprio potere.
Questo spiega perché “parlare male di Garibaldi” sia ancora oggi politicamente scorretto. Perché è in contrasto con la pretesa di un significato identitario ed unitario del risorgimento che dovrebbe fondare una “memoria storica condivisa”.
Ma la realtà del Paese, a partire dal sottosviluppo economico e dalla subalternità culturale dell’attuale Sud, continua a riproporre quotidianamente ed impietosamente i nodi non sciolti dell’unificazione, soprattutto se confrontate con l’evidenza delle scoperte storiche sul Regno delle Due Sicilie, venute alla luce negli ultimi vent’anni.
Di Garibaldi che fu lo strumento di quella unificazione, dunque, bisogna non si può fare a meno di parlare. Per il Sud discutere seriamente della sua “impresa” è un passaggio obbligato: significa fare i conti con il proprio passato e, insieme, porre le premesse del proprio riscatto.
Nel 2007, anno del bicentenario della nascita, l’Editoriale Il Giglio affidò a Gennaro De Crescenzo il compito di tracciare un ritratto di Garibaldi fuori dal mito e dall’agiografia, fuori dalla retorica vecchia e nuova. Sulla base, cioè, di documenti e fonti storiche misconosciute ed occultate e non di pregiudizi ideologici. Il breve saggio divenne un vero best seller di quel bicentenario, l’unico a dire qualcosa di nuovo e di storicamente fondato su un personaggio del quale si dava per scontato tutto, troppo.
Presto esaurito, Contro Garibaldi viene oggi presentato in una nuova veste grafica per riproporre, intatta nella sua portata, l’opera di demolizione della falsa mitologia mascherata da storiografia.

Il contesto storico

Sulla figura di Garibaldi e del suo ruolo nella vicenda risorgimentale sono state date interpretazioni non sempre omogenee che, pur riconoscendolo sempre come eroe dell’unificazione italiana, hanno proposto sfumature diverse del personaggio, illuminandone alcuni tratti piuttosto che altri.
Chi fu, dunque Garibaldi? L’eroe che dedicò la vita a combattere per ideali di libertà e di giustizia? Oppure lo strumento inconsapevole di una trama di potere ordita da massoni e liberali per impossessarsi dell’intera Penisola? O ancora, il rivoluzionario che collaborò attivamente alla conquista del Regno delle Due Sicilie, condividendo pienamente gli scopi e i mezzi delle forze unitariste?
La risposta a queste domande sarà la chiave per rileggere l’impresa risorgimentale e le sue conseguenze che giungono fino ai nostri giorni.

L’autore

Gennaro De Crescenzo è nato a Napoli nel 1964.
Docente di storia e letteratura in un liceo, è specializzato in Archivistica, Paleografia e Diplomatica e in Scienze della Comunicazione. Nel 1993 ha fondato l’Associazione culturale Movimento Neoborbonico.
Appassionato ricercatore, ha pubblicato L’altro 1799: i fatti (Edizioni Tempo Lungo, 1999) e Le industrie del Regno di Napoli (Grimaldi, 2002).
Per l’Editoriale Il Giglio, è autore di La difesa del Regno (con altri), di Ferdinando II di Borbone, di I peggiori 150 anni della nostra storia.

Il brano scelto

«Chiarita, comunque, la farsa del plebiscito, tutta la retorica del consenso intorno a Garibaldi e al “risorgimento” nel nostro Sud potrebbe essere smantellata dai dati relativi ai napoletani e ai meridionali chiusi in prigione durante il “regime” borbonico e durante la “liberazione” unitaria. Illuminanti, in tal senso, le inedite cifre riportate tra le carte sempre dell’Archivio di Stato di Napoli. “Tutte le carceri rigurgitano di detenuti nelle grandi città come nelle piccole borgate: nuovi edifici sono stati dappertutto destinati ad uso di carceri. E’ pubblica fama che nella sole città si noverino 16.000 carcerati. Nell’ultimo settennio [tra il 1852 e il 1859] in tutte le carceri di Napoli il numero di detenuti di tutte le categorie non oltrepassò mai i 1560”. Vengono citati, per una maggiore precisione, le medie dei dati relativi agli ultimi sette anni del governo borbonico nelle singole prigioni: “Vicaria 900-600, San Francesco 400-350, Santa Maria Apparente 100-60, Concordia 50-40, Santa Maria Agnone 110-90, totale 1560-1140!”. Un’altra fonte riporta dati ancora più precisi: 7115 i detenuti a Napoli, nelle province e nelle isole al 31 agosto 1860; 18.472 al 30 settembre del 1860, appena 23 giorni dopo l’arrivo dei liberatori garibaldini a Napoli. A queste cifre, per rendersi conto della loro enormità, bisogna aggiungere un altro dato importante: la scarcerazione di quasi tutti i detenuti del periodo borbonico (non solo politici) durante la dittatura garibaldina. Sulle condizioni dei carcerati è utile riportare le parole di un cronista del tempo che, reduce da una visita delle carceri siciliane, riferisce di “prigionieri ignudi, ricoperti di piaghe e insetti” e che dormivano “sul selciato”.

Era la conseguenza ovvia (nonostante l’apertura di nuove strutture carcerarie) di un “accalcamento” che non aveva precedenti nella storia del Regno. Sempre in merito alle loro condizioni, da sottolineare anche che i Borbone consentivano ai parenti anche due visite al giorno, “sotto il regime della libertà”, invece, le visite si riducevano a tre per settimana. Eppure nessuno arrivò a parlare di “governi-negazioni di Dio”, come avevano fatto gli inglesi qualche anno prima iniziando l’interessata demonizzazione dei Borbone. Nessuno trovò la forza e il coraggio di denunciare una situazione davvero insostenibile che preannunciava le violenze e i massacri ancora più devastanti subiti dagli antichi popoli duosiciliani quando, definiti con disprezzo “briganti”, continuarono la loro lotta per la liberazione della loro antica patria con una motivazione (visti i tempi così rapidi di reazione e immediatamente successivi all’arrivo di Garibaldi nei nostri confini) inequivocabilmente politica e anche religiosa, in difesa dei valori e delle tradizioni cristiane che nessuno prima di allora, nella plurisecolare storia della nostra terra, aveva minacciato, colpito e offeso come i nuovi invasori.

Bastava davvero poco per essere arrestati e tenuti in galera per mesi interi senza nessun tipo di garanzia o di processo. Una lettura superficiale delle carte del Ministero dell’Alta Polizia del tempo ci chiarisce la misura del dissenso dei napoletani e dei meridionali di fronte all’arrivo dei “liberatori”. Sono centinaia in pochi mesi i casi di rivolte, manifestazioni, retate o inchieste dal giorno stesso dell’arrivo di Garibaldi a Napoli. Si alternano “voci sediziose al grido di Viva Francesco II” e “bandiere bianche sventolate alla Vicaria” (si trattava di “proletari e persone dell’ultima classe del popolo”, secondo le relazioni della pubblica sicurezza), “occulti agitatori” e autori di “atti [o semplicemente “propositi”] sediziosi”, “garibaldini derubati e percossi” e arresti di giovani che “avevano osato profferire parole ingiuriose contro la Sacra Persona di Sua Maestà il Re”, scontri con “facinorosi” o numerosissimi casi di “richieste di notizie sulla morale politica” di impiegati, militari o funzionari pubblici. Non mancavano casi di veri e propri attentati, di arresti di massa o di perquisizioni di interi quartieri solo per l’affissione di qualche manifesto contro il nuovo regime.»

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